Alfabeto ESPERIMENTI LETTERARI

Alfabeto – Parte II – N come Nebbia

Scritto da Noise

Se quella che sta per cominciare fosse semplicemente una storia, sarebbe semplice spiegare di cosa si tratta. Ma questo è un viaggio da una costa all’altra attraverso le 21 lettere dell’alfabeto. Un viaggio diviso in tre parti, ogni parte “conta” sette lettere.

In fin dei conti è uno schema, un adattamento a uno stile di vita: la paura di non riuscire più a mettere un piede dopo l’altro.

Alfabeto

Parte II – Arrivo

N come Nebbia

Dopo il mio primo giorno di lavoro sentivo che sarebbe finita lì, i tempi che il giornale richiedeva erano diversi dai miei ritmi. Riuscivo a pensare ai miei progetti solo somministrandomi forti dosi d’insonnia. Poi, però, mi ci abituai, i nuovi orari mi calzavano come un paio di scarpe che avevano preso la forma del mio piede e ci stavo comodo dentro.

Io lavoravo sempre, ci eravamo da poco trasferiti nel quartiere residenziale della città, rifiutando orgogliosamente i soldi dei suoi genitori e io non potevo continuare a pesare sulla piccola pensione di mia nonna.

Felicita era spesso a casa, da sola. Tutti i lavori che provava non le andavano bene e io non sapevo dove sbattere la testa. Però riuscivo a portare abbastanza soldi da garantirci il pranzo ogni giorno, pensavo che bastasse a farla felice, non riuscivo a immaginare che dovessi essere anche gentile e buono con lei.

Una volta provai a esserlo e fu il nostro peggior litigio.

Felicita tornava sempre tardi dal lavoro, nel suo ufficio gli affari non andavano bene e per riuscire ad andare avanti licenziarono diversi suoi colleghi e nel frattempo presero i clienti che rifiutavano gli altri studi. Tornava sempre stressata e quella notte pensai di farle una sorpresa, una cena romantica con tanto di candele e musica soft.

Passai l’intera giornata a cucinare i suoi piatti preferiti, a scegliere la sua musica preferita. Solo che quando tornò a casa, in sostanza m’ignorò.

Voleva farsi una doccia e ricominciare a lavorare, voleva finire di compilare alcuni fascicoli.

Disse che non aveva fame, io le feci notare che avevo cucinato per noi i suoi piatti preferiti. Quello che mi diede più fastidio fu il fatto che lei i miei sforzi non solo li aveva disprezzati, ma addirittura ignorati. Eravamo già destinati a finire e non ce ne accorgevamo. Cominciammo a litigare, le parole si fecero più forti e i rancori più vecchi; poi lei fece per la prima volta quello che sarebbe stato il leitmotiv della fine della nostra storia: smise di urlare e cominciò a sbattere le porte, si chiuse con forza dietro le spalle, il portoncino, uscì in strada ed io restai in casa. Quella sera mangiai e, soprattutto, bevvi da solo. Il litro di vino rosso che avevo lasciato a decantare al primo era già finito e rinunciando al resto della cena, mi buttai a letto. Quella notte c’era la festa di un quartiere vicino al nostro e mentre stavo per assopirmi, spararono i fuochi d’artificio, ero nel dormiveglia e con quel vino in corpo mi svegliai di soprassalto in preda a un attacco di panico.

Quando Felicita mi morì davanti agli occhi, il solo rumore che sentii fu quello dei fuochi d’artificio. Quegli scoppi in denotazione mi rimbombavano nelle orecchie. Non lo stridio dei freni, non le scuse dell’autista, non le urla delle persone attorno, solo i fuochi d’artificio. Quei secondi che passavano fra il fischio del lancio e il boato dello scoppio, erano i peggiori. Erano poco più di una manciata di secondi e mi sembravano infiniti. Secondi in cui tutto sembrava fermarsi per ascoltare quel silenzio.

Mi è sempre mancata la forza di prendere delle decisioni, ho vissuto in una situazione di continua insicurezza sulle decisioni da prendere, arrivando spesso al punto di rottura altrui, spesso e non sempre perché chi viveva situazioni di questo tipo con me, si rendeva conto della mia indecisione di base e prendeva decisioni che andassero bene anche per me.

Però, dopo la morte di Felicita ero troppo stanco persino per arrendermi, infatti, cominciai a raccogliere e a inscatolare tutte le cose che le appartenevano. Dopo aver riempito la prima scatola, passai alla seconda e così via, continuai ancora finché ovunque mi girassi c’erano solo cose mie.

Mi ricordai che Felicita aveva lasciato altre cose sue nella casa in cui si era trasferita quando decise di lasciarmi. Scesi di casa, presi un autobus e in breve arrivai a destinazione, bussai al citofono ed entrai. L’amica di Felicita quasi mi ignorò, anzi mi sembrò che il solo aprirmi la porta le avesse procurato fastidio. Io raccolsi i suoi vestiti e qualche libro che riconobbi, rimisi tutto nelle stesse valigie che Felicita aveva portato con sé fin là, salutai e tornai a casa.

Al mio ritorno trovai un cd comprato e ancora da ascoltare, un pacchetto con solo tre gomme da masticare, alcuni numeri di telefono su un pezzo di carta, una bottiglia di latte mezza vuota. Erano tutte cose che Felicita si era lasciata alle spalle quando avevano deciso di abbandonare la nostra casa. Trovai anche una sua camicia intrisa del suo profumo, la presi, la annusai e cominciai a piangere.

Mi sembrò di piangere con tutto il corpo, come se i polmoni, il fegato, la milza e sì, anche la gola e il cuore piangessero assieme agli occhi.

Mi sembrò di piangere non solo lacrime ma sangue, vomito e saliva.

Piansi fino allo stremo e crollai, svenni, il sonno vinse su di me.

Al mio risveglio, decisi di scendere in cantina.

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Clicca QUA per il prossimo capitolo: O come Occasioni.

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Sono Noise, il rumore. Sono il battito del cuore e l'affanno del respiro. Sono il ticchettio che ti tiene sveglio la notte. Sono il ronzio che ti perseguita assieme all'afa estiva. Sono il disturbo di frequenza mentre cerchi la tua stazione radio preferita. Sono i tuoi passi che battono sull'asfalto quando vuoi stare da solo. Il rumore ha un colore e una voce, la mia.
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