Aspettami a casa
Da quando mi ero trasferita a Bologna ogni giovedì sera andavo all’Irish pub all’angolo sotto casa, era diventata una tradizione: ci andavo anche se non avevo voglia o se stavo male. E anche oggi, un giovedì di luglio alle 23.30, mi ritrovo davanti all’insegna di legno marcio che pende leggermente a destra. I colori sono sbiaditi, il nome mi è sempre sembrato irriconoscibile. Lo chiamo semplicemente così: “il pub”.
Ci ero finita la prima sera appena arrivata in città. Pioveva e non sapevo dove andare, finché non ero caduta in quel buco. Una volta entrata il naso si riempì subito di un forte odore di whisky al miele che nauseava, un aroma a cui ormai avevo fatto l’abitudine.
Con gesti meccanici, che mi sembra di fare da una vita, mi dirigo al bancone e afferro il primo sgabello che mi capita sotto mano.
“Adam dammi una birra media, chiara.”
“Una birra per i suoi pensieri, Dear.”
Mi strappa un sorriso, ci riesce sempre, con i suoi denti storti e quei grandi occhi, uno verde e uno marrone. Ci eravamo conosciuti cinque anni prima, quando avevamo iniziato l’università in una città a cui sentivamo di non appartenere, con persone con le quali non riuscivamo ad incastrarci in alcun modo. Avevamo subito notato l’uno nell’altro le crepe che ci accomunavano e così, tra centinaia di studenti, ci eravamo scelti per le mancanze, le ammaccature e le storie che dovevamo ancora raccontarci. Diventare amici era stata la cosa più naturale che ci fosse mai venuta.
Adam veniva dall’Inghilterra, era in Erasmus, o almeno così mi aveva detto, ma non era più tornato a casa.
“Lidia, ormai la mia casa sei tu, sweetie” mi biascicava da ubriaco quando il venerdì mattina lo riportavo a casa dopo la serata al pub.
Io alla fine mi ero laureata in lettere, come da programma, lui invece dopo il primo anno aveva trovato il suo posto come barista nel nostro pub.
“Nessun pensiero stasera, Adam.”
“Dear, ultimamente non mi dici più nulla, non che tu sia stata di solito molto loquac…”
“Sono solo stanca.”
Ed è vero, soffro d’insonnia e non riesco a dormire. Ogni notte fisso le solite quattro macchie di muffa sopra il soffitto con la mente che mi torna a quella telefonata.
Finisco il bicchiere e mi pulisco la schiuma sul labbro superiore, chiedo un’altra birra.
“Mi hanno chiamato da Roma qualche giorno fa.”
Adam mi guarda, i suoi occhi non si staccano dai miei mentre finisce di riempire il bicchiere e toglie la schiuma.
Non chiede nulla, si riempie un bicchiere anche lui e comincia a bere con me, in silenzio.
È proprio questo ciò che ho amato di noi: la capacità di nasconderci nei nostri mutismi, di non rompere la bolla che ci siamo costruiti, ma di condividerla senza doverci dare spiegazione.
“Tua madre sta bene?”
Non rispondo, perché sapeva già qual era la risposta. Se mi chiamavano da Roma non stava bene, non poteva essere altrimenti.
“Non lo so.”
Mento e lui lo sa, ma non dice nulla. Finiamo la birra in silenzio e riempiamo di nuovo i bicchieri.
A quattro anni ero venuta in Italia con mia madre, non mi ricordo esattamente perché: lei mi aveva detto che venivamo a trovare papà. Con il senno del poi le avrei dovuto dire che più che a trovarlo eravamo venuti a cercarlo, visto che io quell’uomo non l’avevo mai visto.
Così mi aveva portata via dalla nostra Siviglia, alla ricerca del suo uomo, che un po’ era anche mio, ma entrambe avevamo perso al suo gioco. Un gioco che, evidentemente, era una qualche forma di nascondino e nel quale era anche molto bravo. Noi no.
Ci eravamo arenate a Roma, in un appartamento piccolo e sudicio, nel quale entrava a malapena una persona e vi era sempre puzza di muffa.
Con tutte le aspettative deluse, i sogni infranti ed un cuore non più ricomponibile, mia madre era crollata su sé stessa come un palazzo dalle fondamenta pericolanti: i suoi occhi si erano spenti, la pelle ha iniziato a cadere, i capelli sempre sfatti e la bocca, prima colorata di rosso e sorridente, era diventata carne morta, distorta in una perenne smorfia di disgusto per tutto e tutti, compresa me.
Riprendeva vita solo quando si perdeva sul fondo delle lattine di birra scadente che mi mandava a comprare al supermercato all’angolo. Dopo la quinta si alzava barcollando e iniziava a urlare
“Lidia, Lidia vieni aquí e ascoltami. Los hombres chiedono una cosa sola: follar, FOLLAR! Ricordati bimba, non ti fidare.”
Poi si accasciava e tornava ad essere la bambolona sfatta che era diventata. Non aveva mai imparato a parlare italiano per bene, ancorata al ricordo di quella che era la sua vita, la sua città. Tutto rovinato per seguire un uomo che le aveva lasciato solo una cosa: me.
Ed era frustrata: si odiava, mi odiava e poi tornava ad odiare se stessa perché malediceva me e si tuffava alla fine in un’altra birra, fino ad annullarsi, per sentirsi meno deplorevole, meno vulnerabile, meno finita, meno in colpa per guardarmi in quel modo disgustoso.
Si anestetizzava, ed io la guardavo farlo.
Il giorno dopo mi chiedeva scusa, la sera ricominciavamo da capo.
Quando il mio corpo iniziò a prendere una forma di donna, mia madre mi guardava con disprezzo e mi parlava di come non mi sarei dovuta far toccare: dovevo rimanere pura, non dovevo farmi prendere in giro come lei.
Ed invece, mamma, non ti ho ascoltata, mi dispiace deluderti.
L’ho fatto a quattordici anni, di fretta in una macchina, con un ragazzo che manco mi piaceva e di cui non ricordo il nome, solo per darti fastidio per vedere che mi avresti detto una volta tornata a casa.
Mi fece male.
Mi facesti male anche tu: mi picchiasti fino a farmi perdere i sensi.
Me ne andai la mattina dopo con i servizi sociali.
Da quella volta, cara mamma, ho imparato a non sprecarmi, a proteggermi, a fuggire da chiunque, come mi hai insegnato tu, perché di nessuno bisogna fidarsi.
Eppure quante volte sono stata stretta, non lo sai, e mi viene da sorridere se penso alla faccia che potresti fare sapendolo, a cosa mi urleresti in quel tuo spagnolo biascicante che si fonde con parole italiane a caso, alla tua faccia rossa alle tue mani tremanti che stringono ancora una lattina accartocciata.
Quanto mi odiavi, quanto ti odiavo.
Ci siamo capitate, non ce ne possiamo fare una colpa.
Vorrei dirti che esistono anche braccia gentili, occhi dolci, labbra calde in cui perdersi, corpi in cui annullarsi, abbracci in cui anestetizzarsi e che a causa dei tuoi fantasmi, che mi hai lasciato in eredità, non sono mai riuscita a vivermi appieno tutte queste cose.
Cara mamma, se te l’avessi detto prima, se fossi stata in grado di spiegatelo, magari i nostri fantasmi sarebbero spariti.
Finisco l’ennesima birra.
“Adam, devo tornare a Roma per il funerale di mia madre, parto domani.”
“Vengo con te.”
Non è una domanda.
“No.”
Prendo le mie cose ed un po’ barcollante mi dirigo verso l’uscita.
“Sicura?”
Mi giro, gli sorrido e lo guardo con tutto l’amore di cui sono capace. Sono sicura, Adam.
Aspettami qui.
Aspettami a casa nostra.
Giulia Fabbretti
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Immagine di copertina di Giulia Chiara.
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