ESPERIMENTI LETTERARI Le parole che non ho detto

Le parole che non ho detto – Suite

Scritto da Eulalia

Le parole che non ho detto – Suite

SUPEREROI

 

Durante ogni viaggio in macchina, da piccolo, ricordo che mio padre indicava i campi coltivati che scorrevano veloci fuori dal finestrino e diceva, per esempio: “guarda, che razza di campo di grano duro!” O spesso ero io a chiedere “Babbo, che c’è là?”; che fosse riso, orzo, granturco, fagioli, mio padre lo sapeva sempre, non si faceva ingannare dai colori strascicati dalla velocità dell’auto, dalle sottili spighe, indistinguibili e per me tutte uguali, intuiva dietro quelle diverse sfumature di verde mille diversi semi.

Ero impressionato. Come faceva a distinguere il mais dal farro? Il grano tenero da quello duro? Lo ammiravo profondamente, e nei pomeriggi a casa sgattaiolavo nei campi per guardare la terra, per passare le mani tra le spighe, accarezzarne i baffi dorati. Pensavo che questa capacità di indovinare le sementi, questo potere magico, facesse parte in qualche modo del pacchetto di meravigliose abilità degli adulti, che fosse frutto di quell’esperienza che li rendeva così grandi e autorevoli. Pensavo che un giorno, scattata l’ora x, quando fossi stato come loro, anche io ne sarei stato dotato. Intanto guardavo variare il colore delle zolle, cercavo di arrampicarmi sugli alberi o ne annusavo la corteccia bitorzoluta: sentivo una comunione profonda con tutto quello che avevo intorno, ma non lo capivo. Me lo sentivo entrare dentro, e pieno di un’euforia incomprensibile correvo lungo lo stradone di terra battuta e poi, fermo, respiravo a pieni polmoni. In maggio osservavo i primi voli dei pipistrelli ed ero felice, quasi commosso, che l’estate si annunciasse con puntualità inverosimile, invariata, mentre io crescevo: anche la terra cresceva, ma con ritmi troppo più lenti dei miei.

Di colpo non avevo più voglia di correre e stupirmi di altro che non fosse il mio corpo, o la mia nuova personalità, e come tutti i preadolescenti sentivo scivolarmi di dosso il candore e la gioia che mi avevano mosso fino ad allora. Non c’erano più viaggi segreti in cantina per osservare le botti piene di vino, o passeggiate fino alle grandi querce che delimitavano il confine dei nostri terreni per poi raccogliere una ghianda e piantarla in un vaso di coccio che a mia madre non serviva più, dare un nome alla piccola pianta e pensare con piacere al giorno in cui sarebbe stato un grande albero, piantato proprio davanti alla mia casa. Non so, ora, dove sia quella quercia.

Fino a che la terra e i suoi ritmi lenti, circolari, i suoi respiri profondi, anziché calmarmi mi agitavano: io mi sentivo diverso, tutto era diverso tranne lei. Mi sembrava stupida, priva di interesse se paragonata a tutte le cose nuove che scoprivo dentro di me: le mie passeggiate ora erano le ore di riflessione sterile, le paranoie, la mia terra era il mio nuovo, sudaticcio e inadeguato io. Poi internet mi offriva troppo novità. Poi ero troppo impegnato a spianarmi il sedere sulle panchine dei giardinetti, a osservare di nascosto queste nuove protuberanze spuntate sul petto delle ragazze, che adesso erano allo stesso tempo affascinanti e repellenti.

E ancora: dovevo crescere, integrarmi, innamorarmi, diplomarmi, deprimermi. E lei sempre là, imperturbabile fuori dalla finestra, con le sue spighe di grano.

Avrei voluto davvero amare la terra, crescerla, coltivarla, come il babbo che pota la sua vigna, raccoglie le sue olive, anche se il suo lavoro è un altro. Come il babbo che indovinava i campi di grano dietro un finestrino.

Crescendo, con dolorosa sorpresa, sono rimasto privo di questa capacità, anche se cerco ancora, ogni volta che viaggio in macchina, di distinguere tra verde e verde. Ma non ho questo superpotere; la terra, quella che si vive e si lavora, per me è rimasta un territorio magico e inesplorato, e gli adulti, di cui dovrei ormai far parte, non mi sembrano più così affidabili e rassicuranti. Sono solo persone come me.

 

 

 

FITNESS

 

Da quando sono single mi affanno un sacco ad allenarmi. Il mio corpo si è trasformato, sono passato da un fisico mediamente rachitico a uno decisamente atletico, e tutto questo, va da sé, l’ho fatto per rimorchiare. Devo dire che penso anche che abbia funzionato: per quanto le donne stiano meno attente a questo genere di cose e riescano a trovare comunque sexy una pancetta molle, tutto sommato mi rendo conto che sono più compiaciute quando, nella fase strappavestiti, non si trovano davanti maniglie d’amore e salvagente. Rimane il fatto che ogni volta che faccio esercizio, e nella fattispecie quando arrivo agli addominali, penso a lei.

Mi ricordo una conversazione avvenuta ai tempi del liceo, in cui le avevo raccontato di volermi mettere in forma. Mi aveva preso in giro ridendo perché, data la mia nota pigrizia e la mia avversione totale per ogni forma di attività fisica – la pallavolo l’avevo abbandonata dopo essere stato apostrofato per l’ennesima volta dall’allenatrice al suono di “se stai così fermo ti cresceranno le radici”, non riusciva nemmeno a immaginare che potessi fare una cosa del genere. Proprio io, che mi sarei volentieri fuso col divano. E poi mi aveva detto che non ce n’era bisogno, perché ero un bel ragazzo (le bugie che si dicono in amore) a prescindere dalla mia forma fisica.

In verità la mia voglia di fitness non era dettata da altro se non da una devastante insicurezza, dall’insoddisfazione che provavo ogni giorno guardandomi allo specchio e dalla voglia di piacere. Ma, e questo era un bel presagio di quel che sarebbe successo poi, non di piacere a lei. Io volevo piacere alle altre, volevo piacere a tutti.

Durante i primi tempi della mia crociata di allenamenti ero molto soddisfatto di come stavo cambiando. Mi sentivo una cosa che non mi ero mai sentito in vita mia: mi sentivo fico. Era proprio lo stesso periodo in cui mi piaceva uscire la sera, mi piaceva abbordare una nuova ragazza e portarmela a casa, godevo immensamente nel chattare con cinque persone rischiando di confondere i loro nomi, che rigorosamente scordavo, promettendo un appuntamento a ognuna.

Ora invece mi affretto a lavarmi l’altrui sudore di dosso, mi annoio a ripercorrere sempre lo stesso giro dei locali, e ogni volta che arrivo lì, a fare i miei addominali, ripenso a quella chiacchierata. Ma non sto a ripercorrere con la memoria le curve del suo sorriso e non ricordo cosa sia successo prima o dopo le parole che rammento tanto bene. Vado oltre, e mi chiedo cosa ne penserebbe lei del mio nuovo corpo. Noterebbe le differenze? Se adesso io mi spogliassi davanti a lei, vedrebbe in mezzo alle cose familiari quelle che sono venute dopo?

Mi domando se le piacerei di più, se vorrebbe toccarmi con più curiosità o più desiderio, oppure se non se ne accorgerebbe o addirittura se ne dispiacerebbe. Il pensiero di trovarci di nuovo nudi l’uno davanti all’altra è eccitante, a volte strano e tendenzialmente triste. Forse anche il suo corpo è cambiato e forse, se lo vedessi senza vedere il suo volto, non lo riconoscerei.

Pensando a noi ho sempre immaginato che l’avrei riconosciuta tra mille, lei, il suo odore, come le madri sanno indovinare i loro neonati al solo tatto. Come l’odore di casa sua che mi invade ancora le narici, nitido nella mia memoria, e ogni volta mi fa venire voglia di piangere – ricordo l’ultima volta che l’ho sentito come se fosse ieri: entrai in casa sua e sapevo che quella sarebbe stata l’ultima volta. Aspirai quella familiare mescolanza data dal rivestimento del divano in pelle, consunto, dalla polvere delle tende, dal detersivo per i piatti. Lo respirai a pieni polmoni e mi vennero le lacrime agli occhi perché per me quell’odore significava essermi nascosto dietro a quelle tende, aver preparato i popcorn per lei nella cucina e averli mangiati sul vecchio divano davanti ad un film qualsiasi. Aver fatto l’amore sul letto dei suoi genitori ed aver giocato con il suo computer e i suoi vecchi peluches. Eppure, se davvero lo risentissi oggi, forse non sarei più in grado di riconoscerlo.

Io ho davvero, davvero voglia di fare l’amore con lei. Non me lo spiego se non con il masochismo e la curiosità: non è mai stata una gran bomba a letto, e del resto nemmeno io lo ero. Mi sono fatto ragazze più belle, più porche, probabilmente anche molto più intelligenti di lei, e con qualcuna è andata avanti per un mesetto o due, però io la voglio disperatamente. Non ci penso mai, ma se ci penso rischio d’impazzire.

Ho immaginato questo momento in tutte le salse, con ogni genere di preambolo e perfino con ogni tipo di finale – tragico, squallido, comico – in ogni situazione, in ogni possibile luogo. Sono ansioso di affondare le mie mani nel passato, di annusarla, di baciarla, più prosaicamente di sentirla ansimare al mio orecchio, sono curioso di vedere cosa sa fare, se è cambiata o se è ancora impacciata come quando stava con me, e mi pervade una punta d’orgoglio alla consapevolezza che io potrei sicuramente darle più di un tempo. Il sesso, anche se e anche quando non funzionava, è sempre stato parecchio importante tra noi. Perfino quando l’ho tradita, per me scoparmi un’altra era un modo come un altro di fare l’amore con lei – ma non avrei saputo spiegarglielo, e di fatto non c’era proprio nulla da spiegare.

E così, ogni volta che faccio gli addominali, mi chiedo che cosa ne penserebbe lei vedendoli; mi sono così affezionato all’idea che mi sembra quasi scontato che prima o poi succederà.

A volte mi chiedo, e scaccio subito l’idea, se tutto quello che ho fatto per piacere agli altri, io non l’abbia fatto di nuovo per sedurre lei.

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Clicca qua per la terza parte: Fuga.

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Foto di copertina di Andrea Piccin.

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Eulalia

Sono una studentessa di Medicina a tempo pieno e una scrittrice a tempo perso, all’anagrafe ho ventidue anni. In realtà, credo di non averne compiuti ancora diciotto.

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