ESPERIMENTI LETTERARI Le parole che non ho detto

Le parole che non ho detto – Fuga

Scritto da Eulalia

Le parole che non ho detto – Fuga

SETTEMBRE

 

Sono tornato a casa, ed è un Settembre particolarmente mite: mi piace questo mese, come non è più estate, ma non ancora autunno: il cielo è senza nuvole, soleggiato di quel sole pallido, non sguaiato ma non ancora freddo.

Io passeggio senza giacca immerso in quest’aria dorata di mezza stagione, rabbrividendo appena. Vengo dai miei più di rado rispetto a quando ho iniziato l’università – il che sarebbe a dire un secolo fa – ma comunque più spesso di quanto non vorrei o non vorrei far credere. Sto bene da mamma e babbo, o se non con loro sto bene in questa casa, nella mia cameretta che ho conservato intatta come un santuario dell’adolescenza, in cui ogni cosa mi è nota, cara e odiosa allo stesso momento, come il fumo bianco della distilleria, le colline e la vita meschina di provincia.

Questa è casa mia anche se, o forse proprio perché, ne sono fuggito. Scappare da qualcosa lo rende inevitabilmente e immutabilmente nostro, e poi il passato non ti volta le spalle all’improvviso, lasciandoti in mutande in mezzo alla merda; è eternamente fedele, e io lo coltivo come il mio più bel fiore: mi piace fare sempre le stesse cose, sempre nello stesso modo, anno dopo anno. Sedermi sulla stessa panchina, fare la stessa passeggiata, andare alla stessa fiera con le stesse persone e negli stessi orari. Non sono un abitudinario, solo uno che sente che i riti sono fondamentali per non perdersi. Io voglio tenermi per mano, me, il bambino che a dieci anni sedeva sulla stessa poltrona, l’adolescente sudaticcio che pizzicava a caso le corde della chitarra (sono un uomo dai molti incompiuti talenti), l’adulto inetto che ora aiuta la mamma a rigovernare.

Se fosse per me continuerei così fino a trent’anni, anche se mi hanno detto che non è possibile, che un giorno dovrò avere dei nuovi ritmi. In quel verbo, dovere, si estrinseca tutta la mia resistenza a crescere, e se è questo a impedirmelo ci rinuncio, alzo da subito bandiera bianca; più di una volta facendo queste cose ho sentito una tale dolcezza da piangere, una dolcezza che nessun essere umano ha mai saputo darmi.

Per tornare scelgo il treno. Dal primo al settimo anno, stimo di aver fatto almeno trecentosessanta volte questo tragitto di cinquanta minuti, e ne conosco ogni millimetro. Ricordo dei viaggi in particolare, come la volta che me lo sono fatto tutto chiuso in bagno perché non avevo i soldi per comprare il biglietto, o quando ripetevo a manetta Anatomia e un arabo dall’altra parte del vagone mi guardava perplesso. Altre volte ancora ho pianto per tutto il viaggio, una volta mi sono rotto un dito nelle porte scorrevoli, a volte non ero solo, o leggevo, o ascoltavo musica. Indipendentemente dalla durata, un viaggio in treno è sempre un momento d’intimità.

Questa volta ho azzardato a guardare fuori dal finestrino per tutto il percorso: dico azzardato perché non si sa mai cosa si può vedere fuori da un finestrino. Una finestra, di qualunque genere essa sia, è sempre un varco per un mondo che non appartiene a noi, di là dal vetro. Alle stazioni, mentre il treno è fermo, guardo le case attorno al passaggio a livello, soprattutto di sera: le finestre illuminate, le lampade, i tavoli apparecchiati, vedo donne, bambini che camminano o ridono, colgo stralci di interazione, e all’improvviso mi piomba sulle spalle il peso di tutte le vite che non mi è concesso vivere.

Poi il treno riparte e la velocità deforma il paesaggio, gli alberi che si tendono come canne al vento, i fili dell’elettricità che restano, lineari, a tagliare il cielo in due, qualche tramonto così rosso da essere commovente. Si può piangere per un tramonto, o per una luce accesa sulla vita degli altri, e a me capita senza sapere bene il perché. Forse non è una colpa così grande non capire a pieno che cosa mi commuove, eppure a volte penso che se facessi questo sforzo la mia vita non sarebbe così tutta storta.

Così oggi, nel mio bel Settembre, cammino per le strade del mio paese, soltanto quelle conosciute: potrei perdermi a contare quante volte le ho fatte, più di cento, più di mille, e non sono cambiate di una virgola. Non cambiano neppure i miei passi, svelti come sempre, solo che ora non hanno una meta; non mi dirigo al bar, né ai giardinetti, neppure all’incrocio dove mi vedevo con lei. Cammino e basta, mi guardo intorno accarezzando con gli occhi le panchine, i prati rasati, le scale di cemento sbreccato e i graffitacci sui muri, come tanti vecchi amici. Ho una sensazione strana, camminando: tutto è più piccolo, perfino le case che mi scorrono a fianco.

Sono cresciuto dentro questo paesino come si cresce dentro il vestito preferito. Te ne accorgi quando ormai le maniche ti stanno corte, e i pantaloni, sfilacciati ai margini, non ti entrano nemmeno più. Chissà quanto mi parevano grandi allora il parco giochi dove ho fumato la prima sigaretta, la panchina seminascosta da una siepe di cipresso dove ho dato un umido primo bacio. Solo le strade sono diventate lunghe, interminabili. Le suole mi si logorano dove prima volavo, i secondi di allora sono diventati minuti, mezz’ore, le distanze infinite.

Taci, anima stanca di godere e di soffrire…

Torno verso casa accelerando il passo. Ma la strada, come accade nei sogni, diventa sempre più lunga.

 

 

 

ETNALAND

 

Il terzo anno di Università sono andato in vacanza a casa di un mio collega siciliano. Il terzo giorno, in un’afosissima mattinata di Agosto, abbiamo preso l’auto e ci siamo diretti verso il più concreto nulla della sterminata e arida campagna siciliana, nel cui bel mezzo si trova il parco divertimenti di Etnalad. Non ero stato mai in un parco acquatico in vita mia, ma sapevo che mi sarebbe piaciuto – ero gasato, in macchina ascoltavamo gli 883 cantando a squarciagola ed ero in uno di quei momenti in cui avrei voluto fare un fermo immagine e portarmelo dietro per sempre, incorniciato, perché la mia vita assomigliava molto a quello che avrebbe dovuto essere secondo me se ci avessero fatto su un film – è così che misuro la qualità dei miei momenti, sapete, in base a quanto sembrino tratti da un film alla “Notte prima degli esami”. Poi decido che la mia vita fa schifo: dite voi se purtroppo o per fortuna.

Ero ancora fidanzato, davo ancora degli esami e li superavo a pieni voti. Mi facevo la barba quasi ogni giorno, mi sentivo ottimista. Quella notte avrei compiuto il mio primo tradimento, con sudarella e bollori adolescenziali, primo di una lunga serie. Tra una canzone e l’altra, scrivevo a Marta messaggini d’amore del cazzo.

L’attrazione principale di Etnaland sono gli scivoli: immensi tubi di plastica colorata che sembrano venire a picco giù dal cielo, tenuti insieme da qualche bullone, lubrificati da qualche schizzo d’acqua, dove entri e vieni lanciato come un proiettile, in verticale, dentro una piscina.

Ho adorato quel posto: nonostante la ricerca affannosa di fazzoletti d’ombra dove riparare la mia carnagione color mozzarella dal sole impietoso, nonostante i piedi bruciassero sulle mattonelle rosate delle strade, mi sembrava di non essermi mai divertito tanto. Il telefono dimenticato in un armadietto al sicuro, e io lanciato giù come una pietra negli scivoli di Etnaland.

Li ho provati tutti. L’unica cosa che dovevo fare era chiudere gli occhi: guardare dove stavo andando a finire mi faceva troppa paura, preferivo restare al buio e sentire solo l’adrenalina, l’acqua e quella gradevole sensazione di vuoto allo stomaco che mi diceva che stavo precipitando. Poi, l’impatto con l’acqua.

 

Per togliermi di dosso la responsabilità di quello che successe poi, potrei dire che la ragazza che mi sono fatto, una delle due che erano con noi, ci ha provato con me tutto il tempo. Potrei dire che ero ubriaco, che ho preso un’insolazione, che sentivo tanto la mancanza della mamma oppure che ho tentato di sottrarmi. Niente di questo è vero. La ragazza era effettivamente attraente, sicuramente non le dispiacevo visto come sono andate le cose, ma no, non sono stato violentato. Sì, ero in grado di intendere e di volere, non mi mancava la mamma e ancora una volta, no, non ho confessato il mio crimine dopo averlo commesso.

L’abbiamo fatto in spiaggia, di notte, sotto un asciugamano. La sua pelle era salata e liscia, aveva delle belle labbra e i capelli neri. Non mi sentivo così vivo da tanto tempo.

Quando abbiamo finito ho chiamato Marta e le ho detto che la amavo.

Questa scena si è ripetuta innumerevoli volte: dopo che si è persa la verginità, farlo è ogni volta più facile, meno soddisfacente e più amaro, ma quella era la via di mezzo per me. Ci stavo comodo. Mi ero detto così tante volte che era finita, che mi annoiavo, che volevo fare altre esperienze, ma avevo troppa paura per lasciarla andare. Molto meglio fare le mie esperienze senza rinunciare a lei.

Era già Gennaio dell’anno dopo quando lo scoprì, e mi colpì che non mi insultasse nemmeno. Mi aspettavo rabbia, parolacce, odio, ero già rannicchiato in un angolo da mesi, dentro di me, perché sapevo che prima o poi sarebbe venuta a sapere tutto, ma non successe niente di quel che avevo pensato.

Mi guardava come se stesse guardando il muro, con gli occhi vuoti, con l’espressione di chi non si aspetta più niente. Mi disse a malapena due o tre parole.

Col senno di poi, mi rendo conto di quanto un parco acquatico in cui gettarsi nel vuoto con gli occhi chiusi faccia per me: è quel che faccio da sempre. So che sto precipitando, e mi piace precipitare. Non voglio vedere dove sto andando e se ad aspettarmi ci sarà, questa volta, il suolo.

Occhi chiusi, vuoto nello stomaco, adrenalina. Cadere.

 

 

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Clicca qua per il prossimo capitolo: Andante con rabbia.

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Foto di copertina di Andrea Piccin.

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Eulalia

Sono una studentessa di Medicina a tempo pieno e una scrittrice a tempo perso, all’anagrafe ho ventidue anni. In realtà, credo di non averne compiuti ancora diciotto.

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