Alfabeto ESPERIMENTI LETTERARI

Alfabeto – Parte II – P come Possibilità

Scritto da Noise

Se quella che sta per cominciare fosse semplicemente una storia, sarebbe semplice spiegare di cosa si tratta. Ma questo è un viaggio da una costa all’altra attraverso le 21 lettere dell’alfabeto. Un viaggio diviso in tre parti, ogni parte “conta” sette lettere.

In fin dei conti è uno schema, un adattamento a uno stile di vita: la paura di non riuscire più a mettere un piede dopo l’altro.

Alfabeto

Parte II – Arrivo

P come Possibilità

Cominciai a pensare a chi si sarebbe seduto su quel pullman al posto mio, se anche lui avesse perso il biglietto e se Felicita l’avesse notato.

Provai a immaginarlo: era sugli ottanta chili, con un cappello che gli copriva gli occhi e un paio di baffi pieni di briciole e avanzi ci cibo.

Ero sempre stato convinto che i particolari facessero la differenza, e, in quella mia immagine, non potei fare a meno di pensare ai particolari.

Non mi interessava di che colore fossero i baffi, ma che fossero sporchi.

Non mi importava se fosse basso o alto, m’importava solo il suo peso.

Così continuai ad aggiungere solo i particolari ad un uomo che se quel giorno avesse occupato il mio posto su quel pullman non mi avrebbe fatto incontrare Felicita, non avremmo vissuto assieme, saremmo stati estranei e la sua morte mi sarebbe stata indifferente. Però, se non fosse successo tutto questo, non sarei tornato sull’isola per dimenticarla e non mi sarei trasferito in un castello con una donna salvata da un uomo che stava per picchiarla e un bambino lasciato sull’isola da un circo.

Più le giornate passavano sull’isola e sempre più mi sentivo legato a Ginevra e Santiago. I mostri, feticci della mia vecchia vita, assorbivano tutto il mio tempo e gran parte delle mie energie. Poco prima di partire per l’isola li imballai con cura e li spedii a casa di mia nonna, poi quando mi trasferii da Ginevra, li portai con me, ci lavoravo metodicamente alcune ore al giorno. Li spostavo con tutto quello che mi serviva per lavorarci nelle varie zone del castello, le giornate passavano placidamente e allo scambio della stagione fredda con quella calda mi ritrovai con tutti i mostri esposti davanti alle porte della casa. Anche se non era un punto nevralgico per la viabilità dell’isola, diverse persone ogni giorno si trovano a passare di là e incuriositi mi guardavano scolpire, dipingere, scartavetrare, incollare.

Incontravo almeno quattro volte al giorno una signora di mezza età, cioè, era lei che mi incrociava durante il suo cammino mentre ero fermo al banco di lavoro. Aveva uno strano accento musicale e per ogni parola che pronunciava mi ritrovavo catapultato in luoghi dove il sole perseguita i loro abitanti per tutto l’anno, non come sull’isola, che d’inverno fa un freddo che taglia le dita.

Lei lavorava nel centro dell’isola, ma viveva vicino al castello, era bassa e con i capelli corti. Non si preoccupava del passare del tempo e lentamente ciocche grigie prendevano sempre più spazio su un cuoio capelluto che altrimenti sarebbe stato completamente nero. Era tutta in proporzione, mani e piedi piccoli e agili. La incuriosiva soprattutto il fatto che impiegassi tanto tempo su un solo particolare. Quando di sera, durante il suo ritorno, mi trovava intento a scolpire ancora il dente che avevo cominciato al mattino si fermava e stupita mi chiedeva cosa avessi fatto tutta la giornata e io, candidamente, rispondevo: “Questo dente.”
Lei a quel punto mi guardava con una faccia come a dire: “Senti se hai dormito tutta la giornata e solo un quarto d’ora fa ti sei ricordato che dovevi finire questo dente, a me puoi dirlo.”
Io rispondevo con la faccia di chi davvero aveva speso tutta la giornata su un solo particolare, sulle sfumature del legno o di quelle del cuoio, provando diverse vernici per trovare quella che meglio si intonava col resto. La mia faccia era così vera da risultare innocente, lei mi guardava ancora un po’, mi augurava la buona notte e riprendeva il suo cammino, consapevole che al momento del buongiorno sarei avanzato di un solo dente.

Un giorno, all’ora di pranzo, si fermò davanti a me. Io non potevo dedicarle tanto tempo, stavo finendo di dipingere un occhio del basilisco e sapevo di non poterle parlare se prima non avessi finito di sistemare tutte quelle sfumature. Le altre volte che, talmente preso dal lavoro che avevo davanti, non potevo darle retta, lei capiva e con un saluto veloce riprendeva il suo cammino. Quella volta invece aspettò, anzi, la vedevo più attenta del solito a quello che stavo facendo. Bagnato dal suo sguardo, mi sentii importante e per vanità avrei voluto rallentare ancora di più i miei gesti, ma mi trattenni. Completai l’occhio, sistemai i colori, mi pulii le mani sul grembiule e dedicai tutta l’attenzione a lei.

Buongiorno, deve dirmi qualcosa?”

Sì, vorrei acquistare una delle sue statue.”

Cosa?”

Per la prima volta qualcun altro era interessato ai miei mostri oltre a me.

Sì, voglio fare un regalo al mio compagno e vorrei prendere una delle sue statue per metterla nel suo negozio. Che prezzo fa?”

Non so che dirle, non ne ho mai venduto nessuno, li tengo per me.”

Capisco, quindi non hanno nemmeno un prezzo?”

No, direi di no.”

Una ruga di dispiacere le trafisse il viso e rimase lì, di fronte a me a fissarmi.

Per lei posso fare uno strappo alla regola, diciamo.”

Davvero?”

Sì, è strano incontrare qualcun altro interessato a loro. Quindi perché non approfittare della situazione?”

Lei mi sorrise, poi si bloccò e mi fissò negli occhi, pensierosa.

Loro? Li tratta come delle persone?”

Mi hanno fatto compagnia per così tanti anni che ora li considero parte della famiglia.”

Non sono un po’ ingombranti?”

Sì, lo sono, ma adesso non ci faccio più caso.”

Sono indecisa su quale statua prendere, a quale sarebbe pronto a rinunciare?”

Non saprei dirle, che tipo di negozio è?”

Un bar.”

Non ha paura di spaventare i clienti con uno di questi mostri?”

No, no è un bar molto particolare, se viene con me glielo mostro così mi aiuta a scegliere la statua che più si addice all’ambiente.”

D’accordo, però deve aspettare che sistemi i colori e gli attrezzi.”

Lei annuì e con molta pazienza aspettò che riponessi pennelli, spatole, scalpelli su un tavolo che avevo nel cortile del castello.

La seguii per il centro cittadino, camminavamo in silenzio, lei alcuni passi avanti a me. In poco meno di un chilometro arrivammo alla meta. Il bar aveva un portoncino pesante a doppia vetrata. Appena entrato, mi colpirono lo stile unico fatto di muri di travertino e lampade d’ottone, alcuni articoli incorniciati che parlavano della chiusura imminente di un teatro e di musica classica.

Leone?” Chiamò lei poco dopo la nostra entrata.

Appena arrivò il proprietario del bar non potei fare a meno di pensare quanto quel nome gli calzasse bene. I capelli lunghi e grigi gli incorniciavano la testa fino alle orecchie. Il corpo era grosso con i muscoli in tensione che trattenevano la loro forza, tradita dal fulminare degli occhi, sproporzionati rispetto al resto del viso, delicato e attraente per come ostentava la sua calma.

Piacere, Bruto.” Gli tesi la mano al di sopra del bancone.

Lui senza degnarmi di uno sguardo si girò di spalle, prese lo straccio che teneva appoggiato su una spalla e cominciò ad asciugare i bicchieri. Ne prendeva uno per volta, li asciugava, apriva la credenza e li sistemava.

Sonia chi è il tuo nuovo amico?” Chiese lui quando attaccò a pulire il bancone.

È uno scultore.” Rispose lei pronta.

Quella definizione mi fece vergognare, non ero mai riuscito a definire bene il mio lavoro sull’isola, essere definito scultore da quella donna con cui mi incrociavo diverse volte al giorno mi fece inaspettatamente arrossire.

E come mai è qui?” Le chiese brutalmente guardandola negli occhi. Lei gli sorrise amorevolmente senza rispondere, fece solo di no con la testa.

E come mai è qui?” Chiese con una nota di gentilezza.

Così va meglio. È qui perché deve consigliarmi dove mettere la statua che voglio regalarti.”

Che statua è?”

Nemmeno questo abbiamo deciso, è venuto qui anche per questo.”

Già, dovrei conoscere la storia di questo posto per capire quale delle mie statue è la più adatta qui dentro.” Esordii io calandomi nella parte.

La storia è semplice: questo era un teatro, mi ci sono esibito da giovane. Ero un cantante di lirica dilettante, mi piaceva. Poi è venuta la guerra, sono andato al fronte, dall’altra parte del paese, e solo dopo la guerra sono tornato sull’isola, l’ho riaperto e l’ho trasformato nel bar che vedi adesso.”

La guerra? Lei ha fatto la guerra?” Chiesi sbalordito.

Durante la guerra ci siamo conosciuti.” Rispose Sonia per lui.

Ci chiamavano resistenza. – continuò Leone. – Io giravo in bicicletta con la mitraglietta in spalla, appena sentivo una camionetta avvicinarsi mi nascondevo e aspettavo che mi passassero avanti, se erano nemici, gli sparavo alle spalle. Non era una cosa gratificante e leale, ma qualcuno doveva pur farlo.”

Ci nascondevamo tutti e appena potevamo combattevamo, aiutavamo il popolo.” Lo interruppe Sonia.

È vero, anche tu avevi il tuo bel da fare. Noi mangiavamo quel poco che riuscivamo a procurarci, ma era compito tuo cucinarlo – Leone si girò verso di me, i suoi occhi erano persi nella memoria.- D’inverno era ancora più difficile trovare qualcosa da mangiare. L’esercito nemico passava casa per casa a prendere ciò che voleva: pane, latte e formaggio. Una notte in cui vedevo il nostro respiro addensarsi in nuvolette bianche di vapore aspettavamo al gorgo una camionetta nemica carica di vettovaglie. Alcuni di noi bloccarono la strada con dei massi, i nemici si fermarono per spostarli e furono sparati a bruciapelo. Io, con altri, ero sotto l’argine della strada, in breve fummo dietro la camionetta, quello avanti a noi preso dalla foga aprì il portellone, poco dopo alcuni colpi sparati dall’interno lo lasciarono a terra. Il soldato superstite urlò, io feci segno ai miei compagni di fare silenzio e ci nascondemmo al lato del veicolo. Le urla del soldato iniziarono a farsi meno insistenti, l’uomo prese coraggio e quando, dopo tempo, uscì allo scoperto, feci quello che mi riusciva meglio, lo sparai alle spalle. Prendemmo tutte le scorte che loro avevano preso dai vari paesi. Avevamo fame, è vero, ma invece di tenercele per noi – e fidati che quella roba da mangiare ci avrebbe fatto comodo – le lasciammo davanti alle porte dei paesi più vicini.”

Le porte del popolo le chiamavamo!” Esclamò nostalgicamente Sonia.

Così capirono che i soldati toglievano loro il cibo e la resistenza glielo ridava. Era un modo come un altro di prepararci un posto in cui nasconderci.” Concluse Leone con un sospiro rumoroso.

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Sono Noise, il rumore. Sono il battito del cuore e l'affanno del respiro. Sono il ticchettio che ti tiene sveglio la notte. Sono il ronzio che ti perseguita assieme all'afa estiva. Sono il disturbo di frequenza mentre cerchi la tua stazione radio preferita. Sono i tuoi passi che battono sull'asfalto quando vuoi stare da solo. Il rumore ha un colore e una voce, la mia.
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Ho una casa o meglio un club e puoi trovarmi là: noisclab@gmail.com

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