“Cronache di uno studente fuorisede” è, fra le altre cose, un esperimento narrativo. La scrittura non è lineare, le frasi sottolineate indicano i pensieri che mi son balenati in testa, quelle in grassetto sono relative alla mia parte razionale e quelle in corsivo alla mia parte emotiva. Il risultato potrebbe sembrare strano e un po’ schizofrenico. Beh, lo è.
Se non hai mai letto queste Cronache inizia qua, se invece ti sei perso la Saga di Daniela inizia da qua.
Il nostro Anon è ormai a Padova già da un po’ e, dopo aver sconfitto la sua precedente coinquilina in una fredda battaglia psicologica, decide di togliersi delle piccole soddisfazioni, tra cui qualche rissa in notti di studentesco ordinario delirio.
Tuttavia la vita continua e le due coinquiline inglesi dovranno presto tornare a casa. Eppure non ogni addio è per forza triste, può infatti anche esser accompagnato da scelte, situazioni e conseguenze decisamente imprevedibili.
O comunque che non sono in grado di gestire.
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Capitolo 6: L’Addio
Le valigie sono sparse per il corridoio, zaini stracolmi di vestiti sono poggiati contro l’attaccapanni e due paia di piedi uniti son sul finto parquet davanti la porta d’ingresso.
Davanti a me si ergono Paula e Caryl, la mani lungo i fianchi, i giubbotti abbottonati e un leggero sguardo malinconico sul viso.
*Tradotto dall’inglese*
Incrocio le braccia al petto, triste: “E così, finisce…”
Paula: “…Già.”
Il silenzio torna fra noi per qualche altro secondo.
Mi sembra di veder Caryl con gli occhi un po’ più lucidi, Paula cerca un fazzolettino di carta e persino io sto per iniziare a frignare come una ragazzina.
“S-s-spero di esser stato per voi un buon coinquilino, ho provato a comportarmi al meglio.”
Caryl: “L-lo sei stato. Lo sei stato.”
Paula mi guarda con quei suoi occhi verde chiaro: “Ora p-p-però dobbiamo andare…”
Stringo le labbra sconsolato e faccio un passo in avanti. Senza dire nulla afferro uno zaino, me lo metto sulle spalle e sollevo due valigie.
“Vi accompagno giù.”
Il taxi sta aspettando con il motore acceso e il bagagliaio aperto, l’autista è appoggiato alla portiera e fuma nervoso una sigaretta, sa che davanti a lui sta per consumarsi un addio, ma conosce anche bene il suo lavoro: tutte quelle pause silenziose, quegli abbracci e quei saluti sono tristi, ma anche tempo perso e quindi un portafoglio potenzialmente più vuoto.
Porto le valigie accanto alla macchina, il tassista le solleva e inizia a caricarle incastrandole da esperto giocatore di tetris nel bagagliaio.
Mi volto verso di loro: occhi lucidi e labbra strette con i lati rivolti verso il basso in un debole tremolio.
Le abbraccio.
“Paula, Caryl… Spero di rivedervi presto.”
Le parole sono pesanti e non vogliono uscire: “Fate buon viaggio.”
Un macigno mi preme sul petto: “Mi mancherete.”
Le guardo negli occhi e do loro un bacio sulla guancia.
“B-b-bye Anon…”
“We’ll miss you too…”
Restiamo lì ancora per poco, senza saper cosa dire guardandoci in silenzio mentre la macchina borbotta piano così come il guidatore.
Dopo qualche altro secondo decide di intervenire: “Beh, andiamo?”
Un sospiro trema nell’aria: “Si…”
Entrano in macchina e richiudono la portiera.
Il vento soffia sulla pelle scompigliandomi i capelli mentre rimaniamo a guardarci attraverso il vetro sporco del finestrino.
Il tempo scorre più lentamente, la macchina inizia ad allontanarsi e si fa sempre più piccola.
Arriva alla fine della strada, svolta a destra, scompare.
“E così finisce.”
“N-n-n-non piangere…”
“È tutto così strano… ”
“N-n-non f-f-farlo…”
“Occhi verdi chiari.”
“Smettila.”
“Loro che bevono tè in canottiere e mutandine in cucina.”
“Per favore.”
“Profumo di shampoo e balsamo per la casa.”
“E che sei stronzo eh.”
“Dai, torniamo su.”
Risalgo le scale e mi trovo in casa, da solo.
“Beh ragazzi dai, che sarà mai.”
“Figuriamoci se sei in grado di capire…”
Cammino in cucina e apro la credenza controllando quel che hanno lasciato: un pacco di pasta al cioccolato, dei barattoli di tonno e qualche bustina di tè.
Le afferro sfregandole fra le dita.
“PGtips: adoravano questo tè.”
Porto una bustina a forma piramidale al naso e annuso a pieni polmoni.
“Senti che buon odore.”
“È l’odore della nostalgia…”
“Ah, piuttosto. Dobbiamo andare a fare la spesa.”
“*sigh*”
“Sento anche un leggero sentore di agrumi…”
“Dobbiamo comprare biscotti, della salsa e la frutta.”
“Possibile tu sia così insensibile?”
“E non dimenticarti il tabacco, è quasi finito.”
Sospiro, mi maledico, vado verso il bagno e inizio a farmi una doccia.
Sono lì, che mi massaggio i capelli quando mi rendo conto che il livello dell’acqua si fa sempre più alto.
Chiudo il rubinetto e sollevo il coperchio dello scolo nel piatto doccia. Infilo la mano, chiudo le dita e la risollevo come il braccio meccanico di una gru.
Trovo questo: oltre mezzo kilo di capelli marci e bagnati.
Stringo le labbra, impreco rumorosamente, ingoio un conato di vomito e provo ad evitare la puzza di materia organica in putrefazione che sale.
“Anche a distanza di giorni l’immonda bestia continua a darci fastidio…”
Esco dalla doccia, scarico a più mandate il grumo di capelli nel cesso e mi vesto.
“Mamma mia che silenzio…”
Entro in quella che prima era la camera delle inglesi, osservo i letti vuoti, le pareti spoglie e la serranda abbassata a metà.
“È tutto così nostalgico…”
“Tristezza.”
“Mamma mia…”
“Oh Gesù…”
“Che diavolo vuoi tu ora?”
“Siete tutti e due incredibilmente patetici…”
“Cosa ne vuoi capire tu della sofferenza?”
“Okay okay, ho capito che vedevamo culi ondeggiare dal salone al bagno ogni giorno, capelli svolazzare e risate gioiose per la casa, ma state perdendo di vista quel’è il punto chiave della questione.”
“Ovvero?”
“La casa.”
“Non capisco…”
“Vuoi un disegnino? La casa è libera. LA CASA È TUA.”
“Q-q-questo vuol dire che…”
“Esatto, puoi fare lo stracazzo che vuoi.”
“Proprio t-t-tut-”
“TUTTO.”
La nostalgia dura altri 0.038174 secondi, l’istante successivo le casse dello stereo sono in cucina, quello dopo sto ruttando e quello successivo mi vede impegnato ad abbassarmi i pantaloni.
Nel giro di cinque minuti le pareti rimbombano sulle note di Skullclub dei The Glitch Mob, le finestre sono spalancate e io indosso solo occhiali da sole a lenti tonde blu e un kilt verde mangiando un barattolo di fagioli sul balcone mentre fumo.
Rientro in casa, stappo una birra, rido sguaiatamente della mia libertà mentre un gruppo di ragazzi e ragazze (i vicini) mi fissano senza parlare dall’altra parte della strada e dopo due secondi vado in bagno.
Sto quasi per chiudermi la porta alle spalle.
Ci penso su un momento, sorrido lasciando la porta aperta e vado a sedermi sulla tazza accendendomi un’altra sigaretta.
“Non è permesso fumare in casa.”
“MA STA’ ZITTOOOO!!!”
“WOOOHOOOOOOO!!”
La casa è sempre stata un gioiellino: pavimento pulito e lindo, finestre trasparenti e fornelli impeccabili.
La maniacalità di Daniela aveva dei vantaggi, il fatto di star da solo sta decisamente modificando il mio modus operandi nel giro di qualche secondo.
“Sai, stavo pensando… Se ogni mutanda la utilizzassimo il giorno dopo al contrario potremmo cambiarcele ogni due giorni.”
“Oddio.”
“Aspetta aspetta… Se poi le usassimo anche al rovescio i giorni diventerebbero quattro…”
“Non stai parlando davvero, vero?”
“E se raddoppiassimo il numero di giorni potremo cambiarci le mutande solo quattro volte al me-”
“NON DIRLO NEANCHE PER SCHERZO.”
“Potremmo avere un notevole risparmio in fatto di lavatrici mensili, pensaci.”
Son qua da solo in cucina mentre stappo la seconda birra e inizio a berla prima ancora di aver fatto colazione e realizzo una cosa: nel nocciolo del mio IO più intimo, nel profondo della mia anima, nel cuore della mia essenza… Sono un lurido.
Prima di questo giorno credevo di essere una persona ordinata e pulita: lavavo per bene, curavo i dettagli, facevo attenzione a non sporcare ed ero certo che lo facessi perché sono cosi, che io ero e sono una persona rispettosa di sé e dei suoi spazi.
Non mi ero reso conto che invece facevo tutto quello solo per rispetto nei confronti dei miei coinquilini, per un senso di decenza, per non passare da bestia incivile, per vergogna.
Invece eccomi qua: sono davanti allo specchio e mi osservo mentre mi gratto il sedere e bevo una birra a stomaco vuoto alle undici e 33 del mattino. I miei occhi sono leggermente spiritati e si muovono curiosi osservandomi il viso.
Mi saluto: “Buongiorno Anon!!”
Scoreggio.
Rido.
Finisco la birra.
Rutto.
Riprendo a ridere e torno in camera mia.
L’eccesso di libertà dura per altre due settimane.
Sono le dodici e sento la porta d’ingresso suonare: il giorno prima era mercoledì e sto ovviamente riprendendomi da una serata di merda.
Il campanello continua a suonare mentre una goccia di bava mi pende dal bordo del labbro inferiore.
Inizio a svegliarmi tormentato da questo suono atroce.
“Ma chi cazzo è?”
Dopo altri cinque isterici squilli demoniaci sposto una gamba giù dal letto e provo a tirarmi su, cammino ondeggiando verso le tapparelle e ne sollevo una sbadigliando.
Un raggio di luce illumina la mia stanza: un tappeto di fogli pieni di formule ricopre un pavimento con scatole del McDonald, in un angolo si erge un mucchio di mutande sporche che pare sia sul punto di prender vita e muoversi e sulla poltrona c’è un quantitativo di magliette e jeans che neanche in un bidone giallo della Caritas.
Mi trascino verso l’ingresso pulendomi il filo di bava sul mento con il polso e accarezzandomi i capelli, posso sentire che tutto il lato destro è sparato verso l’alto dopo una notte di pressione contro il cuscino.
Appoggio la fronte contro lo stipite: “Chi diavolo è?”
“Anon? Sono la Maria! Hai ricevuto il mio messaggio?”
“Oh merda.”
Maria è la padrona di casa.
“Ehm… Maria. Si certo, ecco, no. Non credo di averlo ricevuto.”
Mi strofino la faccia e mi colpisco le guance per svegliarmi meglio, il cervello è ancora rallentato e ubriaco.
“È successo qualcosa?”
La voce incerta della vecchia bacucca attraversa il legno: “Beh ecco, sono con Carla, doveva vedere la casa…”
“Carla?!?”
“Una ragazza?”
Realizzo la situazione e appoggio l’occhio contro lo spioncino: vedo Maria e accanto a lei uno splendido esemplare di homo sapiens genere XX, è più bassa di me di una decina di centimetri, ha un bel cappotto beige e capelli rossi. È uno schianto.
“Oddio…”
Ruoto la testa verso destra in un moto di sconcerto e disperazione: posso intravedere la cucina e il salone.
Vorrei accasciarmi sul pavimento e sparire.
In cucina il tavolo è ricoperto da un mucchio di caffè (mi si era rotta la confezione sopra e avevo pensato “Hey, perché raccoglierla e metterla in barattolo quando posso lasciarla qua?”), una sedia è capovolta per terra, barattoli di tonno sono impilati come a voler creare una piramide, macchie di sugo ricoprono i fornelli e il lavabo è pieno di una colonna di piatti sporchi. Volevo sperimentare quanto tempo ci avrebbe messo l’acqua del rubinetto a scivolare da un piatto all’altro prima di raggiungere il fondo del lavandino. Ero arrivato a oltre un minuto con il getto a metà della potenza.
Il salone è ricoperto di bottiglie di birra e vino, macchie di liquido si allargano sul pavimento, buste di popcorn sono sparse sul tavolo e dietro l’uscio.
E questo è solo quello che riesco a vedere dalla mia posizione. Non oso neanche immaginare cosa c’è dietro quei muri.
Ruoto la testa a sinistra: il corridoio e il bagno sono disseminati di batuffoli di polvere grandi quanto palline da tennis, asciugamani sporchi e vestiti, non ricordavo neanche di averne così tanti. Fra essi alcune mutande, calze, magliette intime e chissà cos’altro.
Mi appoggio sulla porta e chiudo gli occhi maledicendomi in silenzio.
“MA PORCO CAZZO!”
“INVENTAQUALCOSAINVENTAQUALCOSAINVENTAQUALCOSAINVENTAQUALCOSA.”
“Siamo nella merda.”
Inizio a parlare: “Beh allora, si ecco, non che la casa non sia proprio in disordine. Però ecco, io dovrei… Dovrei insomma… Mi dia due minuti.”
Mi volto di scatto e vado verso la cucina. Alzo la sedia, sollevo i lembi della tovaglia e faccio un unico fagotto che raccoglie caffè, barattoli di tonno, delle penne, tabacco, mozziconi e altra roba a cui mancava ancora un’identificazione. Chiudo questo schifoso involtino domestico alla meglio e lo butto in uno scaffale della credenza chiudendo l’anta.
“Può andare, il prossimo.”
Corro verso il corridoio dando calci a vestiti spedendoli tutti nella mia camera, raccolgo con prudenza mutande, scarpe, asciugamani e pantaloni per poi gettarli dietro la porta della camera da letto.
Do un’occhiata al bagno: puzza di vomito.
Entro e mi avvicino, scarico il gabinetto, apro la finestra, raccolgo tre mezzi rotoli di carta igienica sparsi in giro e li butto dietro la lavatrice. Raccolgo degli asciugamani e li poggio sul lavabo.
“Può andare, il prossimo.”
Entro in salone raccogliendo buste di popcorn e riempiendole con le lattine di birra, bottiglie di vino e fazzoletti bagnati. Seguo il mio lurido percorso come farebbero Hansel e Gretel con delle briciole di pane.
Sono a testa china che raccolgo di tutto mettendolo da parte finché non sento un suono: è qualcuno che dorme.
Alzo lo sguardo in un rigido gesto meccanico sbarrando gli occhi: sul divano c’è una ragazza.
“COSA?!?”
“Non dirmi che ieri sera… Noi…”
“Impossibile.”
“Beh a me Asimov e Lovecraft piaccion parecchio…”
“Ma anche la fantascienza ha i suoi limiti.”
“E allora chi diavolo è?”
“E che diavolo è successo?”
“Glielo chiederemo più tardi. Per ora deve sparire.”
Mi avvicino e infilo una mano sotto la schiena e un’altra sotto le gambe, la sollevo. La porto in camera mia e la appoggio sul letto.
Sono stanco, era più pesante del previsto.
“Possibile che non si sia svegliata?”
“Magari… Magari non sta dormendo…”
“Oh buon Dio…”
Sgrano gli occhi e poggio due dita tremanti sul collo.
Nulla.
Aspetto.
Nulla.
Aspetto.
Panico.
Aspetto, sposto le dita.
Sento il battito.
“Bene.”
“E se si sveglia proprio durante la visita?”
“Cosa vuoi che faccia, legarla per polsi e caviglie?”
“…”
“Stai scherzando?”
“…”
“Non sarai mica serio?!?”
“…”
“NON SE NE PARLA.”
“Legarla non basterebbe, potrebbe mettersi ad urlare. Dovresti anche tapparle la bocca in qualche modo.”
“NON MI METTERÒ A LEGARE E IMBAVAGLIARE UNA RAGAZZA CHE HO TROVATO IN SALONE.”
Abbasso la tapparella, esco dalla camera, chiudo la porta alle mie spalle e vado verso l’ingresso.
Sblocco la serratura, due giri di chiave, abbasso la maniglia e apro.
“Buongiorno!!”
Maria è davanti a me, mi osserva e abbassa la testa mentre si copre la faccia con una mano, la rossa è alla sua destra, mi guarda sgranando gli occhi e inizia a ridere provando a trattenersi.
Nella fretta mi sono dimenticato di vestirmi: sono davanti a loro in mutande, sul mento ancora il filo di bava e i capelli sulla destra sparanti in alto.
Le occhiaie e il mio sguardo da idiota completano il quadretto.
Dopo qualche altra risata della rossa mi fiondo in camera e mi vesto velocemente con le robe meno sporche che riesco a trovare al buio senza svegliare la tipa. Un jeans chiaro e una maglietta di Lanterna Verde. Bene.
Il tour ha inizio.
“Ecco, questa è la cucina, come puoi vedere ci sono due frigoriferi. Qua ci metto il cibo e qua il vino.
Cioè in realtà sono da dividere, ma per ora che sto da solo, ecco… Vabè.
Poi qua c’è il lavabo, che tu vedi un po’ pieno, e in effetti lo è, ma è comunque un bel lavabo.
Cioè ha un suo perché.
Poi le sedie sono… Sedie.
Ecco insomma, si…
Per quanto riguarda la credenza questo dovrebbe essere poi il tuo ripiano.”
Mentre lo dico apro l’anta e la tovaglia-fagotto cade dall’alto finendomi in testa aprendosi appena: uno sbuffo di caffè parte verso l’alto, delle scatolette di tonno sfuggono verso il basso e dell’olio inizia a gocciolare dal centro dell’involtino. Riesco a richiudere la tovaglia velocemente alla bell’e meglio prima che tutto si capovolga a terra evitando un successivo disastro e rimetto tutto nel ripiano spingendolo con il palmo della mano ed ostentando un sorriso forzato.
Non funziona: i lembi della tovaglia si distendono ribelli fra le mie mani lasciando scivolare una decina di lattine, una densa nuvola marrone che si sparpaglia sul pavimento insieme a penne, tabacco, mozziconi di sigaretta, dei cucchiaini e croste di pizza.
“Oh, guarda, sembra che sul tavolo ci fosse anche un preservativo e del riso.”
Forzo un sorriso indicando il mucchietto di polvere sul pavimento:
“Caffè?”
La padrona di casa mi guarda sconsolata nascondendosi la faccia sotto le mani e la rossa non ha ancora deciso se vuole ridere o mettersi a piangere.
“Ma, prego, passiamo al salone.
Allora, eccoci qua. Questo è un tavolo per otto persone.
Però ci sono sei sedie. E quindi… Quindi nulla.
Poooooooiii lì ci sono due divanetti e qua un’altra credenza. C’è anche una TV e due stendini.”
La rossa si avvicina e fa una domanda: “Ma come mai tutti questi Pop-Corn?”
“Mmmhh, beh, perché… Mi piacciono i Pop-Corn…?”
“No, il punto è: perché sono a terra?”
“Aaaah, quello… Beh vedi ho fatto una festa qua ieri sera, mi ero dimenticato che sarebbe venuto qualcuno qua stamattina e non ho avuto il tempo di pulire.”
“Che non è neanche molto lontano dalla realtà.”
“Ben fatto.”
“Ne dubito…”
“Oh, perché scusa?”
“Beh, vedi, lì c’è del pane con la muffa. Secondo me tutto questo è qua già da un po’.”
“Ma che cazzo è, Sherlock Holmes?”
“Le opzioni sono due: o passiamo per luridi o per stronzi.”
“E le donne amano gli stronzi.”
La guardo: “La verità è che sono un pessimo padrone di casa e offro roba scaduta e sottomarca ai miei ospiti, ma ti posso assicurare che la festa è stata ieri sera.”
Vedo il bordo superiore del suo labbro sollevarsi verso sinistra in un gesto schifato.
“Forse non questo tipo di “stronzi”.”
Ci spostiamo attraversando il corridoio e prendendo la prima porta sulla sinistra.
“Bene e questo è il bagno, come vedi è tutto nuovo e molto bello, non il classico bagno da universitari.
Il piatto doccia è nuovo, così come i sanitari.
Poi la finestra è molto grande, ottima se vuoi, tipo… Aprirla. Si. Ecco.”
La rossa entra e inizia a guardarsi intorno. Vedo il suo volto spostarsi da un angolo all’altro della stanza passando sul lavandino, il piatto doccia, il bidet, il gabinetto, il bidet, il bidet, il bidet e il bidet.
Sta fissando quella conca in ceramica per decisamente troppo tempo.
La domanda non tarda ad arrivare: “E il vomito è compreso nel prezzo?”
“Che?”
Mi avvicino e lo vedo: ha ragione. Il bidet è mezzo pieno di una brodaglia semitrasparente con leggeri riflessi rosa, sul fondo dei salatini mezzi digeriti traballano insicuri e aloni acidi si rincorrono sulla superficie.
“Ecco perché era rimasta tutta quella puzza stamattina…”
Alzo lo sguardo e lo punto nei suoi occhi, non so cosa dirle.
“Beh, te l’ho detto che c’è stata ‘na festa. Che t’aspettavi, succo di mirtillo?”
Dopo qualche minuto la rossa esce di casa con lo stesso sguardo che dovrò aver avuto io dopo la casa di Carmelo.
“Tutti voi ragazzi del capitolo uno… Ora capisco cosa vuol dire. Mi dispiace… Mi dispiace tanto… Perdonatemi.”
La padrona di casa resta con me per qualche altro minuto.
“Anon tutto questo è a dir poco inaccettabile…”
“Senta signora davvero io m-”
“Non voglio sentire storie!” Inizia a gridare: “QUESTA RAGAZZA ERA PRATICAMENTE UN CONTRATTO SICURO, SE NON AVESSI TENUTO LA CASA IN QUESTO MODO ADESSO AVREI GiÀ UNA STANZA FITTATA!!”
“Guardi ha davvero ragione è solo che ieri era mercol-”
“NON VOGLIO SENTIRE ALTRE STRONZATE!!”
Maria, donna bassa, leggermente robusta e dai capelli castani tinti, con me non si era mai spinta oltre lo “sciocchino”.
A vederla adesso, con la faccia rossa, i pugni serrati lungo i fianchi e la voce rauca di rabbia potrebbe voler prendere a pugni anche un bambino.
“E chi non vorrebbe?”
Inizia a strofinarsi sconsolata con due dite le sopracciglia accentuando il grigio spessore delle rughe: “Allora Anon… Stiamo un po’ calmi… Domattina verrà un’altra persona a veder casa. Saremo qua alle 10. Se non sarà tutto pulito e lindo ALLA PERFEZIONE al mio arrivo puoi anche iniziare a cercare un nuovo appartamento. Mi dispiace Anon, vedi di aggiustare tutto.”
Epilogo.
Vado in camera mia, apro la porta e mi dirigo verso la tapparella. Dopo qualche passo incerto nel buio inciampo su un paio di jeans, urto la sedia, e faccio cadere una bottiglia di birra per terra che si infrange rumorosamente sul pavimento.
Raggiungo la tapparella e inizio a sollevarla proprio nel momento in cui sento un: “mmmh-mmmh” provenire dalla mia destra.
La luce illumina la stanza e vedo la tipa che si stropiccia gli occhi iniziando a guardarmi.
Sbadiglia leggermente: “Oh, buongiorno.”
“Ah si… B-b-buongiorno a te.”
“Vado a darmi una rinfrescata in bagno, ti spiace?”
“Ecco vedi, beh… Tecnicamente no. F-fai pure.”
“”Tecnicamente”? Che cazzo vuol di’ “tecnicamente”?”
“N-n-non so.”
“Ma a non far figure di merda per più di tre secondi non ce la fai proprio eh?”
Resta lì per qualche altro secondo guardandomi mentre io non so semplicemente cosa dirle e parlo fra me e me.
Indossa una canottiera nera, un paio di jeans aderenti le foderano le gambe magre, capelli castani le scivolano sopra le spalle e occhi nocciola mi fissano grandi e luminosi.
“Dille qualcosa idiota!”
“Del tipo?”
“Del tipo perchè cazzo è a casa tua?”
“Si ma non vorrei sembrare scortese, cioè comunque è carina eh…”
“Oh Gesù…”
“Magari vuole sono andarsi a lavare e basta.”
“Ma dille qualcosa comunque! Il tempo passa!”
“Qualcosa del tipo…?”
“Io ci rinuncio.”
“Ti preparo un caffè?”
“Perché no, grazie.”
Va in bagno e io in cucina inizio a raccogliere con il cucchiaino la parte superiore della montagnetta di caffè per terra per poi riempire il filtro della moka. Aggiungo l’acqua, chiudo la caffettiera e la metto su un fornello acceso insieme alla teiera.
Mi raggiunge dopo qualche minuto.
Siamo seduti uno di fronte all’altra, lei gira il cucchiaino nella tazzina da caffè mentre io sorseggio il mio tè fumando una sigaretta.
Siamo circondati da lattine di tonno, polvere, mozziconi, piatti sporchi, mosche e nuvole di fumo in un’atmosfera plastica e irreale.
Il silenzio ci stringe idrostaticamente.
Finisce il suo caffè e resta lì a fissarmi.
Ingoio un sorso di tè e do una boccata alla sigaretta.
“Okay, ho capito. Inizio io.”
Mi schiarisco la voce e attacco: “Ecco, non vorrei sembrare scortese, ma tu, esattamente… Chi sei?”
Stringe le labbra distendendole sul volto: “Non ti ricordi proprio?”
“No.”
“Stavamo ballando all’Octopus ieri sera, dopodiché siamo venuti qua.”
“Oh, d-d-davvero?”
“Si, avevi bevuto un po’, anche io a dir la verità.”
“Questo spiega tutto… Anzi no. È successo… Si, insomma, è successo qualcosa?”
“Si.”
“Mmh ed è… Si, cioè, è andata… Bene?”
Solleva un sopracciglio infilando il cucchiaino fra le labbra e tirandolo via piano.
“No.”
“Figuriamoci…”
Continua: “Per niente.”
Appoggio i gomiti sul tavolo e mi sporgo leggermente verso di lei: “S-s-se posso chiedere… In che senso?”
“Davvero non ti ricordi nulla?”
Spalanco gli occhi: “Nah.”
Inizia a tamburellare le dita sul tavolo: “Insomma abbiamo iniziato…”
“Cosa?”
“Beh dài… Davvero non…?”
“None.”
“Insomma abbiamo iniziato a farlo…”
“Oh… Ma davvero?”
“Si, cioè no, quella era l’idea… Immagino. Ci siamo spogliati e…”
“E…?!?”
“E niente ho iniziato io…”
“Tu?”
“Si…”
“…?”
Solleva gli occhi al cielo e allarga le labbra in un cerchio sollevando un sopracciglio.
“Per una volta che…”
“Non ce la ricordiamo neanche.”
“Oh beh allora è andata bene!”
Incrocia le braccia: “Decisamente no.”
Affosso tentennante il mento fra le spalle.
Riprende a parlare: “Beh, all’inizio è andata bene, ma dopo un po’ hai iniziato a ridere e ti sei messo a gridare “ASPETTA ASPETTA!!” quindi l’hai tirato fuori e mi sei venuto in faccia. Poi hai strofinato il pollice contro una goccia sulla fronte dicendomi: “Simba, un giorno tutto questo sarà tuo.”
Dopodiché sei andato in bagno ridendo e ti sei messo a vomitare nel bidet.”
“C-c-cosa?”
“Però devo ammettere che all’inizio mi hai fatto ridere. Ho provato ad aspettare che ti riprendessi, ma sei rimasto mezzora abbracciato a quella roba lì, ti stavi pure addormentando per terra.”
“Oh Gesù…”
“Ti ho sollevato per le spalle e ti ho messo a letto. Ero troppo stanca per andarmene e mi sono messa a dormire sul divano. Ah, ho bevuto un po’ di succo di frutta, spero non ti dispiaccia.”
Sbatto sconsolato una mano contro la fronte.
“Davvero è successo questo?”
“E ci ha pure rimessi a letto?”
“Questa ragazza è un angelo.”
“No, è Simba.”
Finisco il mio tè mentre Simba giocherella con la tazzina da caffè.
“E quindi?”
“Quindi niente, immagino debba andare adesso… Avrei pure una lezione fra due ore.”
“Si, però ecco, non so come ringraziarti. Sei stata davvero gentile a rimettermi a letto e…”
“E…?”
“E tipo a non svaligiarmi casa.”
“Quindi…?”
“Quindi niente, non so.”
“…”
“…”
“…”
“V-v-vuoi dei soldi?”
Epilogo dell’epilogo:
Simba se ne va sconsolata con la mia mente ancora in dopo sbornia.
Avrei capito solo molto più tardi quanto detto e mi sarei maledetto per tutta la mattinata.
Clicca QUA per il prossimo capitolo: Il confine superato!
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