ESPERIMENTI LETTERARI Storie

Blue is the warmest colur

Scritto da Giulia Fabbretti

Blue is the warmest colour

 

 

Lidia stava finendo di lavare i piatti sporchi della cena, seduto alle sue spalle c’era suo marito Edoardo che guardava la televisione con sguardo vacuo, con la cravatta allentata, ma non del tutto sciolta, e a piedi scalzi.

Non si erano detti un granché da quando lui era tornato a casa, era ormai da un po’ di tempo che le loro giornate si ripetevano fastidiosamente: Edoardo si trascinava dal lavoro, mangiava in silenzio, si mostrava infastidito se si provava a fargli qualche domanda e rimaneva immobile sulla poltrona a fissare lo schermo finché non era ora di mettere a letto Elisa, la loro bambina.

Dopo aver finito di sciacquare i piatti Lidia si girava a fissare suo marito: non avrebbe saputo dire cosa la spingesse a rimanere insieme a quell’uomo. Si ricordava che un tempo era stato un bell’uomo, piacente e sorprendentemente passionale, ma non sapeva dove era andato a finire, visto che ne rimaneva solo una larva a testimonianza della sua vecchia gloria.

L’aveva amato?

Forse, non sapeva più dirlo.

Negli anni l’aveva sicuramente sorpresa, divertita, affascinata, ma questo forse non bastava più. Aveva provato a capire quale pezzo si fosse rotto, la rotellina che era scappata al suo controllo e che poi aveva fatto si che l’intero ingranaggio andasse in malora, ma non ci era riuscita e le cose non aveva non avevano fatto altro che peggiorare, fino a che entrambi non erano riusciti più ad aggiustarle ed avevano preferito far finta di nulla, avevano preferito nascondere la polvere sotto il tappeto.

Lidia accavallava le gambe mentre lo fissava con aria interrogativa: quando esattamente erano diventati quello che erano?

Eppure si ricordava ancora di quando si erano conosciuti: del vestito di cotone blu che lei aveva scelto per la loro prima uscita, di quando lui le aveva detto che amava che i suoi capelli sapessero di lavanda, di quando l’aveva portata al mare la prima volta e l’aveva spinta in acqua per gioco, poi vedendola arrabbiata si era tuffato anche lui e lei non era riuscita a non perdonarlo.

Avevano fatto il viaggio di ritorno con i vestiti bagnati, con la radio ad alto volume e ridendo del loro essere bambini.

Non sapeva spiegarsi dove era andata a finire tutta quella tenerezza, al suo posto c’era solo stanchezza per una vita che Lidia non sentiva più sua, per un marito che lei non aveva sposato e non riconosceva.

Tante volte era stata tentata di andarsene, di varcare la soglia di casa e non farsi trovare più da Edoardo che rientrava dal lavoro, ma poi rimaneva. Si diceva che lo faceva per Elisa, ma in cuor suo sapeva che le gambe non le avrebbero mai retto nel fare quel passo decisivo.

Lidia aveva paura: paura di essere troppo vecchia per ricominciare, di rimanere da sola, paura di doversi arrendere e di doversi abituare all’aridità della sua vita e di morire in silenzio.

Ma la spaventava di più ingrigire con Edoardo e ritrovarsi da vecchi a guardarsi non riuscendo più a ricordarsi nulla: né il vestito di cotone blu, né l’odore di lavanda dei suoi capelli o la gita al mare.

Avrebbe voluto scrollarlo per le spalle, pregandolo di rendersi conto di come le cose stavano marcendo intorno, loro compresi.

Erano quasi due anni che non facevano l’amore, Edoardo aveva smesso di cercarla, di toccarla e lei aveva fatto lo stesso con lui: erano diventati degli inquilini che si sopportavano a malapena, bastava una parola sbagliata di lei, che Edoardo diventava più cupo e brusco del solito, e lei di rimando si chiudeva nella sua rabbia apostrofandolo per ogni minimo gesto.

Guardandosi allo specchio Lidia si chiedeva perché le mani del marito non l’accarezzassero più: certo non era bella come un tempo, le rughe erano evidenti ai lati degli occhi, cercava di nascondere i capelli grigi, ma ogni tanto ne spuntava uno che argentato si faceva strada nella capigliatura corvina.

Il suo corpo era quello di una donna che aveva avuto una bambina: i seni erano pesanti, i fianchi larghi erano il punto da cui si diramavano profonde smagliature, che le arrivavano fino alle gambe, la pelle non era più tesa e rigida come un tempo, ma morbida e accogliente.

Uno notte aveva provato ad avvicinarsi ad Edoardo, con la speranza che potessero riconoscersi, se non nelle parole almeno nei corpi.

Lui aveva fatto finta di dormire.

Erano rimasti svegli tutta la notte: lui girato su un fianco, che fissava i numeri della sveglia elettronica cambiare, lei fissava il soffitto, con le lacrime che le scendevano sulle guance, anche se non si sentiva triste, piuttosto sollevata e forse proprio per quello piangeva.

Lidia si era arresa sia alla sua vita, che non  riusciva a ricomporre, sia a se stessa, che era troppo debole per fuggire da quella ragnatela che si era creata e aveva deciso che l’unica cosa che le rimaneva da fare era essere una buona madre per Elisa, almeno quello.

Mentre asciugava le sue mani nel grembiule a scacchi che indossava, Edoardo aveva spento la televisione e continuava a fissare con sguardo vacuo un punto sul muro: avvicinò le mani al nodo della cravatta e lo sciolse, prese il pacchetto di sigarette che era sul tavolo e ne accese una, continuando a guardare fisso davanti a sé.

Lidia si accorse che stava fissando la foto del loro matrimonio: nella foto si stavano guardando come se ci fossero solo loro, in tutto il mondo, loro solamente. Non si accorgevano del riso che cadeva a pioggia, né dei parenti che li circondavano.

L’aveva amato?

Lidia lo sapeva guardando la foto.

Ma non era più così e non aveva il coraggio di ammetterlo, magari era così anche per lui.

Edoardo aspirò dalla sigaretta e fece una lunga pausa:

“Lidia, voglio il divorzio.”

Lidia non si scompose, si sedette dall’altra parte del tavolo e prese una sigaretta

“Da quanto fumi?”

“Da ora.”

L’accese con calma, aspirò  e rimase a fissare la foto che Edoardo aveva tanto guardato prima di dire quello che aveva detto. Dalla finestra aperta entrava un leggero vento, Lidia si era sciolta i capelli ed aveva appoggiato il mento sul palmo della mano mentre continuava a fumare, era da tanto che Edoardo non la vedeva così bella.

“Lidia, sono serio.”
“Lo so.”

Lidia cominciò a piangere, ma non era un pianto disperato, né di dolore. Era un pianto sommesso, rispettoso: le lacrime scendevano lentamente fino al suo mento per poi bagnare il grembiule che Lidia non si era ancora tolto. Si guardarono a lungo, in cerca delle parole giuste, di quelle che avevano bisogno di sentirsi dire, ma forse erano troppe le cose che non si erano detti negli anni e di parole giuste non ne esistevano.

Solo una cosa gli disse Lidia:

“Grazie”.

Fumarono la loro ultima sigaretta insieme e stettero seduti ancora a lungo, senza dirsi una parola, ma tenendosi la mano, sapendo che sarebbe stata l’ultima volta.

Quando ormai la luce della loro stanza era l’unica rimasta accesa in tutta la palazzina, Lidia si alzò e andando verso la camera da letto si girò verso Edoardo:

“Domani portiamo Elisa al mare?”.

“Certo. Metti il vestito blu?”

Lidia sorrise di cuore per la prima volta dopo molto tempo e guardò suo marito con tutto l’affetto di cui era capace.

“Metto il vestito blu.”

Nell’aria c’era profumo di lavanda.

 

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Immagine di copertina di Giulia Chiara.

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Giulia Fabbretti

Studentessa di lettere ed aspirante scrittrice confusa, cerco di capire me stessa attraverso le storie degli altri e gli altri attraverso le mie storie.

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