Uniwhere – L’app degli universitari
Intervista al fondatore, Gianluca Segato
Le applicazioni per i nostri Smartphone, ormai si sa, sono migliaia e ne esistono davvero di tutti i tipi (dalle confessioni online a quelle sui partner virtuali). Tuttavia in questo marasma divertente e/o inutile c’è qualcosa che è ancora in grado di stupire davvero. Se poi la fonte di questo stupore porta la firma di un giovane ragazzo italiano, ecco che l’interesse non può che aumentare.
Stiamo parlando di Uniwhere e il suo scopo si intuisce leggendo ciò che salta all’occhio aprendo il relativo sito web: la tua università in un’app.
Questa applicazione, scaricabile gratuitamente per iOS, Android e Windows Phone, ha avuto grande successo in moltissimi atenei Italiani e si sta espandendo a macchia d’olio nella vita quotidiana di molti universitari del Belpaese.
Per saperne di più abbiamo contattato Gianluca Segato, laureatosi recentemente in Economia, classe 1993, uno fra i fondatori e sviluppatori dell’app nonché mente centrale a capo del progetto. Gianluca potrebbe essere fra i nuovi e promettenti volti del marketing e della tecnologia italiana e la sua idea, dopo essere partita in piccolo a Padova, città degli studi di Gianluca, ormai conta più di 50mila download solo sul Google Play.
D: Ciao Gianluca. Innanzitutto complimenti per il progetto. Quest’app, nella sua semplicità, è utilissima e mi ha salvato più volte dal dimenticarmi di qualche lezione, dal saltare qualche appello e ho sempre (purtroppo) il libretto sotto mano a ricordarmi la media. Anche se la popolarità di Uniwhere è in crescita, molti lettori potrebbero non conoscere questo strumento e le sue potenzialità, quindi iniziamo con una domanda di routine: cos’è Uniwhere?
R: Uniwhere è un’app che fornisce un supporto tecnologico alla (già tragicamente difficile – ne sappiamo tutti qualcosa) vita quotidiana del povero studente universitario. All’utente basta inserire le proprie credenziali d’Ateneo: noi gli forniamo accesso immediato alla lista degli esami, alla sua media, tasse, appelli, posta elettronica. Easy. Siccome poi ci siamo resi conto che avere sempre sott’occhio la propria media ad alcuni mette ansia, abbiamo deciso di espandere il progetto. Abbiamo introdotto una pianificazione degli orari delle lezioni condivise in modalità peer-to-peer, e creato un sistema di chat divise per esame (così magari qualcuno passa le domande dei vecchi appelli). Probabilmente il problema ansia non lo abbiamo risolto, ma almeno così l’ansia viene condivisa.
D: Il progetto è recente e odora di start-up. Ho quasi l’idea di un gruppetto di amici che, chiusi nella loro camera o in un garage, una volta ricevuta l’illuminazione riescono a mettere in pratica il tutto per poi sfondare nel mercato. In realtà basta leggere qualcosa di più in giro per scoprire la verità: sei un laureato in Economia e hai fatto nascere tutto (o quasi) da solo. Qual è stata l’evoluzione di Uniwhere e chi altro si è unito a questo progetto?
R: Corretto, all’inizio è partito tutto da me; la vera verità, però, è che siamo davvero un gruppetto di amici e quando lavoriamo su Uniwhere ci chiudiamo davvero in un garage. Ad inizio 2013 ho visto una colossale necessità, che mi sembrava assurdo che l’Università non affrontasse; mi sono preso la briga di farlo io. Dopo otto mesi di sviluppo autonomo, ho pubblicato una prima versione sullo store Android, ed è venuto giù il putiferio. Neanche due settimane dopo già a Padova tutti ne chiacchieravano. Al che (un po’ impanicato) ho coinvolto Giovanni e Federico come co-founders: the big guns. Giovanni nei (rari) momenti in cui non sta morendo su Uniwhere lavora come Project Manager per Toshiba Europe. Federico ha una esperienza di diversi anni di Product Management in alcune multinazionali, ed ora è assistente coach della nostra nazionale di Pallavolo con focus su tecnologie applicate allo sport. Nel corso degli ultimi due anni hanno poi contribuito al progetto moltissime persone; il team oggi conta più di una decina di persone che partecipano allo sviluppo di Uniwhere.
D: Quante università sono coperte attualmente da questa applicazione? In quanto tempo contate di servire tutti gli atenei Italici?
R: Al momento supportiamo 42 università italiane, e con la prossima tranche che stiamo per rilasciare (Milano Statale e Firenze) arriveremo a garantire il supporto ad una cosa come il 70% degli studenti italiani. Entro fine 2016 prevediamo di supportare tutte le prime 50 università d’Italia. E chissà che nel 2017 non riusciamo ad approcciare l’Europa.
D: Avrei scommesso che, nel team iniziale, la maggior parte di voi si occupasse proprio di programmazione. E invece eccoti qua, laureato in economia e primo ideatore del progetto. Da dove nasce questa passione per la programmazione?
R: In effetti la maggior parte del team (Giovanni e Federico) ha una vasta esperienza informatica: non tiri su un progetto del genere senza delle solide basi di sostanza. Le mie stesse radici rimangono tecnologiche, pur avendo con una formazione da Economia, questo è poco ma sicuro. La passione per la programmazione c’è da che ero un bambino. Un ragazzo, all’epoca studente universitario, mi ha insegnato i primi rudimenti di codice mentre ero ancora alle Scuole Medie. Sulla base di quelle dritte durante le superiori ho provato a scoprire e capire tutto quello potevo, e giunto all’Università ho deciso che era arrivato il momento di mettere a frutto quello che avevo imparato. La cosa più pazzesca è che quel ragazzo che, 10 anni orsono fa, mi ha insegnato a programmare, era proprio Giovanni, oggi mio socio e compare di avventure. Incredibile la vita.
D: Ambrogio è sicuramente fra le novità più interessanti degli ultimi aggiornamenti. Chi è?
R: Ambrogio è il mio eroe. Tu non hai idea delle recensioni super positive che riceviamo sugli store da quando l’abbiamo introdotto: tutti in visibilio. Ambrogio è un bot, un assistente virtuale. È nato come pesce d’aprile decisamente esagerato (il bot esisteva davvero e rispondeva davvero alle persone che ci volevano scambiare due parole), ma poi abbiamo considerato che era una cosa troppo figa per lasciarla andare così. Quindi abbiamo deciso di investirci del tempo di sviluppo. A breve verrà aggiornato, e supporterà la consultazione di dati universitari pubblici. Tipo: “Ambrogio, oggi cosa fanno da mangiare alla mensa Piovego?”. E lui risponde.
D: La scelta di non inserire pubblicità è sicuramente vincente, così come il rendere l’applicazione del tutto gratuita… eppure a questo punto mi sorge una domanda. Il team di sviluppo, oltre a sogni e ambizioni, dovrà pur nutrirsi di altro e le Start-Up, a prescindere dall’idea, devono comunque fare i conti con la realtà: il fatturato. Molti utenti non se ne rendono conto, ma dietro un’idea di questo tipo ci sono centinaia di ore di lavoro e migliaia di caffè. Come riuscite a finanziarvi?
R: Non solo caffè e tempo: se consideri che due terzi del core team è composto da professionisti affermati con anni di esperienza, quelle centinaia di ore di lavoro sono una marea di soldi non guadagnati. Fino ad ora ci abbiamo investito solo ed esclusivamente di tasca nostra, ore, sangue, lavoro, ed anche più di qualche soldo. Perché vediamo il valore di quello che stiamo costruendo e perché crediamo nelle nostre idee e nei nostri progetti. Sicuro, se avete una zia ricchissima da presentarci che ci finanzi a fondo perduto non è che ci farebbe poi così schifo.
D: Le difficoltà nel portare avanti un progetto del genere sono elevate, le università le hanno aumentate o sono state aperte al cambiamento di Uniwhere?
R: Le Università sono composte da persone. Da molte persone: dirigenti, amministratori, tecnici, professori… Alcune di queste si sono sentite apertamente minacciate dal nostro lavoro, ed hanno fatto tutto quello che era in loro potere per poterci ostacolare o addirittura fermare: noi abbiamo risposto a tono, ma il fatto che siamo ancora qui significa che sappiamo il fatto nostro. Altri, però, si sono dimostrati incuriositi, coinvolti, addirittura apertamente gasati dal nostro lavoro, ed hanno fatto il possibile per incoraggiarci ed aiutarci. Tirare una riga rossa e giudicare la posizione delle Università italiane quindi non è facile: sicuramente a livello istituzionale non ci hanno dato una mano, ma secondo me non è perché non vogliono. Si rendono conto che per sopravvivere devono cambiare. Il motivo di questo attaccamento allo status quo credo debba ricercarsi nelle logiche interne, dettate da dimensioni a volte politiche e non di efficienza come dovrebbe essere, che impediscono loro di innovarsi con agilità o di incoraggiare ed aiutare chi vuole innovare.
D: Fra i progetti futuri di Uniwhere c’è sicuramente quello di coprire il territorio nazionale, ma cos’altro bolle in pentola? Quali nuove funzionalità prevedete di aggiungere? L’app è già provvista di una chat, che ci si stia avvicinando ad un mezzo-social-network per universitari in versione alpha?
R: Per noi il focus rimane portare innovazione, innovazione, innovazione. E trovare il modo di stare in piedi a lungo termine, perché sennò tutta la baracca viene giù, prima o poi (leggasi: qualche soldo dobbiamo trovare il modo di farlo, altrimenti i server e le persone chi li paga?). Pensiamo di aver trovato una soluzione ad entrambe le cose. A breve termine miglioreremo le chat, ed a medio termine cureremo gli orari. Ma a lungo termine contiamo di andare a colmare un gap colossale che tuttora affligge gli studenti universitari in maniera drammatica: trovare lavoro. Vedrete che roba che tiriamo su, vedrete.
D: Le nuove idee hanno sempre una grande difficoltà a decollare, nonostante l’entusiasmo iniziale. A questo punto mi vengono in mente progetti come quello dei ragazzi di Skyward che, seppur con finalità totalmente diverse, hanno avuto un grande appoggio da parte della loro università. Che rapporto c’è con l’università di Padova?
R: Skyward fa fare un’ottima figura al Politecnico, non solo a livello nazionale ma anche a livello Europeo. Noi alle Università non facciamo fare tutta ‘sta gran figura, ed è per questo che le resistenze al cambiamento all’inizio sono state enormi da parte di molti. Padova si è posta diversamente dagli altri Atenei, però: si sono resi conto che non puoi fermare il progresso, e l’unico modo per affrontare un mondo in totale movimento è cavalcare il movimento stesso, non tentare di arginarlo. Uno dei dirigenti dell’Università di Padova una volta ci ha detto: “Se questa Università è diventata grande, è stato anche perché nel 1600 un gruppo di folli ha fatto un azzardo, contrabbandando cadaveri di nascosto, ed cambiando la Medicina; perché non possiamo fare la stessa cosa oggi?”. Noi non siamo Falloppio, e nemmeno Galileo, ma se c’è apertura possiamo mandare le cose un pelo avanti. Dare un impulso al mondo universitario nazionale verso il futuro. Università di Padova rimane un pachiderma (circa 10.000 dipendenti e 60.000 studenti, rendiamoci conto), e cambiare una struttura del genere nel profondo richiede anni, non giorni e nemmeno mesi. Tuttavia apprezzo molto già anche solo l’espressione di una volontà a darci una mano.
D: Se potessi tornare indietro che cosa cambieresti di Uniwhere, del suo sviluppo o di alcune tue scelte?
R: Guardando gli ultimi tre anni, ed in generale il mio periodo universitario, uno dei miei più grandi rimpianti è non essere andato all’estero. Erasmus, stage, scambio, whatever. Ho fatto scelte diverse, ed alla fine se potessi tornare indietro non cambierei nulla. Però sì: non aver colto l’opportunità Erasmus, una delle cose più belle che hanno regalato alla nostra generazione, ecco, un po’ mi fa male.
D: Per focalizzarti sul progetto Uniwhere hai deciso di non iniziare la specialistica. In un momento in cui le start-up raramente presentano introiti soddisfacenti e in un contesto nazionale dove i titoli di studio non sono mai abbastanza, quanto credi sia rischiosa questa scelta?
R: Non ti nascondo che la scelta è stata estremamente difficile. Non ho avuto quel momento da film del tipo “capisco la mia strada”. Non è stato un “mollo tutto per inseguire un sogno” tipicamente americano. Big changes take time. È stata una scelta molto sofferta, soppesata per mesi, dolorosa, anche perché a me studiare piace da impazzire. Se non ci fosse stato Uniwhere avrei fatto l’economista, davvero. Il ragionamento che ho fatto è stato il seguente: il mondo sta cambiando, ed i titoli di laurea – dici bene – non sono mai abbastanza, e non sono mai abbastanza perché valgono sempre meno. Perché quindi non impiegare le mie giornate e le mie energie in qualcosa che, a parità di tempo impiegato, mi formi molto di più? A prescindere da che vada bene o meno, io lavorando qui sto imparando, tantissimo. Ogni giorno per me vale mille lezioni all’Università. Uno dei miei prof, un anno e qualcosa fa, mi ha detto molto esplicitamente: “finisci la triennale, ma poi dedicati ad Uniwhere full time. Perché fare la magistrale? Non ne vale la pena visto quello che hai in mano tu.” Sto rischiando con Uniwhere? Sicuro. Non per niente nel tempo libero sto frequentando un corso di Stanford su Machine Learning ed Artificial Intelligence, che sai mai che non mi possa servire… Ma non sono preoccupato. In caso andasse tutto “a sud”, come dicono gli inglesi, beh… diciamo che mi inventerò sicuramente qualcosa.
D: Un aneddoto del progetto Uniwhere?
R: L’Università di Padova, ad un certo punto, poco più di un anno fa, ha temporaneamente bloccato l’applicazione. All’epoca eravamo dipendenti dai sistemi universitari, e un blocco di quel tipo aveva reso l’app inutilizzabile. È successo il finimondo. Capisci bene che quando uno studente su due utilizza quotidianamente uno strumento che poi viene sospeso senza alcuna ragione, monta su una vera protesta. Abbiamo scritto un post su Facebook spiegando cosa stava succedendo, e sperando “di essere sentiti” da chiunque potesse aiutarci a sbloccare l’impasse. Qualche ora dopo mi squilla il cellulare, un numero sconosciuto: “Ciao, sono Alessandro, del Corriere. Posso farti qualche domanda su quello che sta succedendo tra Uniwhere e l’Università di Padova?”. A momenti cadevo giù dalla sedia. Shit just got real. Due giorni dopo eravamo seduti al tavolo con i vertici di Unipd. E poi dicono che i giornali non li legge più nessuno…
D: C’è un motto che hai particolarmente a cuore?
R: Te ne dico tre, che poi sono i nostri tre mantra di lavoro. “Done is better than perfect”, “When in trouble, go big”, e la migliore di tutte: “If you’re going through hell, keep going”.
D: Quest’idea nasce da un buco nell’offerta. In poche parole la richiesta per un’applicazione di questo tipo era elevata, ma nessuno aveva mai pensato di rimediare, finché non sei arrivato tu. Che cosa dice il tuo quinto senso e mezzo? Stai già odorando qualche altro gap in giro?
R: Penso che i più larghi margini si trovino nell’intersezione tra Computer Science ed Economics and Finance. Ci sono ancora pochissimi player che applicano meccanismi di Machine Learning agli andamenti delle borse, o allo studio e validazione di modelli macroeconomici. Se avessi tempo e denaro, penso che mi getterei a capofitto su quel filone, che sono assolutamente certo ci poterà enormi sorprese in futuro.
Mi è stata offerta l’opportunità di concludere con un invito ai lettori, cosa che non posso non sfruttare: ragazzi, dateci una mano. Questo progetto è nella fase più critica del suo sviluppo, ed ha bisogno di ossigeno.
Se siete studenti, scaricate l’app, e dite a tutti cos’è.
Se dobbiamo ancora arrivare nel vostro Ateneo, non temete: prima o poi ci arriveremo.
Se siete investitori, scriveteci: fidatevi, abbiamo grandi progetti per il futuro.
Se siete delle Università, anche voi non temete: siamo buoni e non abbiamo cattive intenzioni.
Se volete invitarci a parlare a conferenze, workshop, seminari o simile, fatelo: abbiamo qualcosa da raccontare su tecnologia, innovazione, metodologie di gestione progettuale agile, e nuove iniziative ed attività, oltre ad una vena decisamente egocentrica.
Ed infine, se siete una ragazza dolce, carina, sorridente, a cui piacciono la Luna, le sere d’Estate, i modelli econometrici e l’intelligenza artificiale, fatevi sentire, che i miei amici dicono che ormai è ora che io mi sistemi.
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