“Cronache di uno studente fuorisede” è, fra le altre cose, un esperimento narrativo. La scrittura non è lineare, le frasi sottolineate indicano i pensieri che mi son balenati in testa, quelle in grassetto sono relative alla mia parte razionale e quelle in corsivo alla mia parte emotiva. Il risultato potrebbe sembrare strano e un po’ schizofrenico. Beh, lo è.
Se non hai mai letto queste Cronache inizia qua, se invece ti sei perso la Saga di Daniela inizia da qua.
Il nostro Anon è ormai a Padova già da un po’ e, dopo aver sconfitto la sua precedente coinquilina in una fredda battaglia psicologica, decide di togliersi delle piccole soddisfazioni. Gesù, d’altro canto, gli deve qualcosa.
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Capitolo 5: La prima rissa
Mercoledì sera, ore 9 e mezza.
Ricapitoliamo:
“Doccia?”
“Fatta.”
“Deodorante?”
“Messo.”
“Denti?”
“Lavati.”
“Profumo?”
“Finito.”
“Merda. Vino?”
“Nell’armadio ci restano solo due bottiglie.”
“Com’è?”
“Nammerda.”
“Poco male.”
“Andiamo.”
Finisco di prepararmi: indosso un paio di jeans qualunque, una maglietta, una camicia da lasciar aperta e la giacca di pelle. Le ragazze inglesi stanno parlando con i genitori su Skype, busso alla porta della loro camera per salutarle dopodiché infilo le bottiglie di vino nella giacca e scendo le scale.
Monto sulla bicicletta e vado in Piazza dei Signori, appuntamento con gli altri davanti al bar San Benevolo: lo spritz è una merda, ma è il più economico.
Parcheggio la bicicletta alla rastrelliera e mi avvicino agli altri, ci sono tutti.
Lasciate che ve li presenti.
Gustav, crucco alto dalle spalle larghe, biondo e sorriso da gigante buono, ogni volta che infila una mano nel giubbotto tira fuori una birra, sembra quasi che le produca lui, studia giurisprudenza.
Thomas, collega universitario di Gustav, poco più alto di me, capelli castano chiari spostati a sinistra in un ciuffo liscio.
Jörg studia fisica e, come Gustav e Thomas, è tedesco. È alto all’incirca come Gustav, ma decisamente più magro e snello, indossa occhiali dalle lenti rettangolari, capelli castani cortissimi.
Anja, austriaca studentessa di lingue, è bionda, leggermente più bassa di me, sorriso bianchissimo con una leggera fila di lentiggini sotto gli occhi.
Ioana e Ferenc sono una ragazza e un ragazzo ungheresi. Lei con lunghi capelli mossi castani e il suo inseparabile fragolino e lui con i suoi jeans strappati e collezione infinita magliette a V.
Carlo è l’unico ragazzo italiano, alto come Gustav, fisico atletico, capelli corti di un marrone scuro e occhi azzurri come il cielo.
*Tradotto dall’inglese*
“Allora ragazzi, come va?”
“Ehilà Anon, tutto bene. Abbiam fatto il primo giro di spritz, te ne prendo uno?”
“Perché no, grazie Jörg. Comunque ho portato del bianco.”
Gustav incrocia le braccia infilandosele nella giacca ed estraendo due lattine di birra come un cowboy farebbe con due Colt calibro nove: “Io ho queste. Molte.”
Thomas solleva una bottiglia di prosecco abbozzando un sorriso.
Carlo fa un cenno a del vino che ha in mano: “Ho due bottiglie di ‘sto rosso di merda.”
Ioana si limita ad un “Mmh-mmh” senta staccar la bocca dal suo fragolino.
Dopo qualche minuto Jörg ritorna con lo spritz e me lo porge.
La serata inizia.
Nel giro di due ore beviamo sei spritz a testa, finiamo otto birre, una bottiglia di prosecco, una di fragolino e quattro di vino.
È a malapena mezzanotte e sento già la testa leggera.
“Allora ragazzi come va?”
“A me non c’è male anche se il vino dava un po’ troppo di solfiti. A te?”
“Sto notando ragazze niente male eh. Hai visto la riccia rossa che è passata prima?”
“Eh si… Ma ho visto anche l’armadio alto un metro e ottantacinque che l’accompagnava.”
“Piuttosto come sta il boss?”
“MINCHIA COM’ÈBBUONO SHTOVINOOOOOH!!”
“Così.”
“Senti rimbambito vedi almeno di farci rimanere in piedi.”
“Il buso s’è buso e il gacio non ga gli oci!!”
“Poesia.”
“E da quando parli veneto?”
“Me l’ha insegnata Carlo prima.”
Siam tutti lì che ondeggiamo con dei sorrisi ebeti stampati in faccia per inerzia, finiamo i fondi delle bottiglie e ci guardiamo.
Anja è la prima a proporlo: “Industry?”
La seguiamo a ruota: “INDUSTRY!!!”
“Dove avete le biciclette?”
“Io subito dopo piazza della frutta.”
“Io vicino piazza Duomo.”
“Okay facciamo che ci vediamo sotto l’orologio fra tre minuti.”
Ci allontaniamo ondeggiando a piedi e ci rincontriamo ondeggiando in bicicletta.
Li guardo in faccia: zigomi rossi son sollevati da sorrisi inebetiti e sottolineano pupille dilatate in occhi inebriati, le pose son asimmetriche e corredate da giacche leggermente storte. A giudicar da come gli altri guardano me anche io dovrei avere all’incirca lo stesso patetico e fantastico aspetto.
Si va.
Iniziamo a pedalare sull’acciottolato schivando bottiglie rotte, pedoni e auto in corsa.
Nel giro di qualche minuto vediamo gruppetti solitari di ubriachi ciclisti notturni aggregarsi a noi, li vedo sbucare da stradine laterali con bottiglie di vetro in mano, mentre gridano e cantano.
Le comitive sono numerose e ciò crea una nuvola più o meno dispersa di biciclette dirette verso l’Industry.
Il cambiamento è graduale e repentino allo stesso tempo: la strada diventa nostra e da esseri individuali, ragionevoli e senzienti ci trasformiamo in Folla.
Bruciamo semafori rossi come Tyler Durden brucia sigarette, prendiamo più di un controsenso mentre tassisti e automobilisti shoccati e inviperiti inchiodano per evitare una strage. Curviamo sulle nostre sottili ruote in gomma piegandoci più del necessario: vedo un ragazzo scivolare e venir messo sotto da un altro.
Sento grida, bestemmie, l’infrangersi di una bottiglia di vetro sul marciapiede e un taxi frenare di scatto.
Nessuno si ferma, nessuno fa niente, siamo Folla.
Continuiamo a pedalare mentre i fianchi e la coda del nostro esercito si infoltiscono sempre di più da nuove unità di cavalleggeri sotto alcool e THC. Sotto i piedi sento i pedali leggeri e la testa ondeggiare e svuotarsi ogni volta che caccio un grido, accompagnato dopo pochi secondi da decine di altri. Vedo accanto a me un ragazzo portare sul manubrio della bicicletta una ragazza, la gonna le si alza al vento mentre lei ride e beve da una bottiglia di vino, lui è dietro che si sporge provando ad indovinare la strada tenendo fra le labbra una sigaretta. Ragazzi dietro di noi sbraitano lodi all’importanza dell’apparato riproduttivo femminile nella loro vita esprimendo acute osservazioni sullo stato di manutenzione dello stesso. Altre ragazze li invitano al proseguimento della nobile arte dell’onanismo.
Volti ci osservano dai balconi, sento ondate di disprezzo investirci.
Un gruppo di magrebo seduto su una panchina al buio mangia kebab e ci guarda passare, li vedo ruotare i volti e scambiarsi sorrisi ammiccanti, luminosi e avidi come quelli di uno Stregatto: siamo il loro quarto di bue, la loro gallina da fottere, il loro incentivo, i loro clienti.
Arriviamo all’Industry sudati e sovraccarichi di dopamina, leghiamo le biciclette a qualche palo nei paraggi e ci avviciniamo all’ingresso per entrare.
“Siamo leggermente attivi oggi eh?”
“L’HAI DETTO!”
“Ti preferisco in versione sociofobica.”
Mostro la tessera al buttafuori e entro.
“Interessante come ‘ballare, vomitare, vendere e consumare droga sia ritenuta un’attività da centro-culturale’.”
“Che t’aspettavi? Il novanta percento dei comunistelli che trovi qua dentro è capace di protestare contro le agevolazioni fiscali di una chiesa senza sapere che magari sono le stesse di un ‘centro culturale’ del genere. Un po’ come manifestare contro il capitalismo e andare a cena dal McDonald.”
“Amo questo paese.”
Saliamo le scale e spostiamo le tende di velluto: la musica ci investe come una mischia di rugby.
Lasciamo le giacche nel guardaroba e iniziamo a ballare, la testa è ancora leggera e sangue caldo e alcoolico mi scorre nelle vene, sono già al limite, ma voglio superarlo.
“Gesù mi deve almeno una rissa e, porca miseria, stasera ce ne sarà una.”
“E come penseresti di scatenarla scusa?”
“Che cos’hanno in comune tutte le risse in una discoteca?”
“Esattamente…”
Vado verso il bar e ordino un Cointreau.
“Liscio?!?”
“I cocktail sono per fighette.”
La ragazza al bancone afferra la bottiglia, svita il tappo e lascia scivolare quattro dita abbondanti di quell’agrumata ambrosia trasparente in un bicchiere in plastica. Le porgo quattro euro e mi allontano.
Avvicino il bicchiere al naso e inspiro: sento le vibrisse arricciarsi e gli zigomi arrossarsi.
Inizio a sorseggiarlo con disinvoltura. Ogni volta che ingoio mi sembra di scatenare un’onda di calore che pian piano si muove dalla gola scendendo giù fino al cuore per poi partire in tutte le direzioni irrorando le arterie, scendendo sulle gambe e attraversando le braccia fino ai capillari delle dita come roventi onde di lava.
I muscoli si riscaldano, la gola si secca e la vena sulla tempia si gonfia.
Il cervello? Spento.
“E per spento intendo questo.”
“Zero.”
“SCHOPAREEH!!”
“Appunto.”
Riprendo a ballare insieme agli altri ragazzi, la testa è leggera, la vista annebbiata, lo stomaco brontola e rutto acido.
“Beh, okay che shono ubriacho. Ma non poi coshì tantho.”
“Riesci a malapena a stare in piedi, imbecille.”
“Probhabhilmenthe un altrho lho reggho.”
“Probabilmente no.”
“Ppfff…”
Il tempo passa, ci provo con qualche ragazza e una ci sta: capelli ondulati castani, ondeggia il suo sedere perfetto in direzione del mio bacino. Ne approfitto.
La situazione continua piccante e subumana per qualche minuto tra strusciamenti a palpate varie finché non succede un qualcosa di ovvio, ma che, ahimè, non avevo previsto: si volta.
“OH PORCO CAZZO!!”
“Portatela via! Portatela via!!”
“Mi sha che è bruttigna, eh?”
Sono ubriaco, ma ho ancora quel briciolo di lucidità che mi permette di distinguere fra una barattolo di marmellata e uno di antiruggine. La allontano ridendo pensando alla metafora che mi è appena venuta in mente e mi appoggio al bancone del bar.
“She shono in gradho di riconoschere un cessho vuol dire che possho shiiiiicuramenthe reggegnhe un altroh!”
“No, quella si chiama dignità. Va oltre certi gradi di ubriachezza.”
La ragazza dietro al bancone finisce di preparare quattro vodka-lemon e mi guarda.
“Cosa ti preparo?”
“Fammhi un altrho Cointrehau p-per favhore.”
Si limita a fissarmi senza dire nulla per qualche secondo, dopodiché si volta, afferra la bottiglia e versa altri centimetri cubici al 40% di alcool. Vedo il bordo del liquido salire nel bicchiere sempre di più. Ancora e ancora. Sale troppo.
Per la seconda volta prendo il mio Cointreau, per la seconda volta lo soppeso, per la seconda volta lo annuso. Per la prima volta mi spaventa.
“Shono GIÀ al limithe… D-dovrehi prhoprio?”
“No No No No No No No No No No.”
“No No No No No No No No No No.”
Mi volto e vedo Carlo e Thomas che mi fissano.
Notano la mia incertezza, il mio malessere, la mia paura e decidono di fare l’unica cosa che un buon amico farebbe in queste condizioni.
“BEVILO TUTTO! BEVILO TUTTO! BEVILO TUTTO!!”
“SCHNELL!! SCHNELL ITAKER!! IN DER KOPF!! SCHNEEEELL!!!”
Mi spingono il bicchiere sulle labbra e inizio a bere a grandi sorsi. Il liquido mi scende giù soffice e ad ondate, uno tsunami di fuoco parte dalla bocca attraversandomi fin giù nello stomaco mentre la lingua si scioglie come burro fuso e lo sguardo si capovolge verso l’alto.
È l’inizio della fine, lo capisco troppo tardi.
Finisco le mie quattro dita di alcool, abbasso la mano distrutto mentre il bicchiere mi scivola dai polpastrelli, li sento tremare, e la mandibola si rifiuta di alzarsi per richiudere la bocca.
Riprendo a ballare vagando per la sala.
Passa qualche minuto e perdo di vista i miei amici. Sono lì, solo, in mezzo a gente che non conosco e che balla sudando e gridando. Mi guardo intorno in un luogo non mio, in uno stato d’animo non mio e in un corpo non mio, non più. Sono distaccato e intrappolato al tempo stesso.
Faccio qualche passo e sento il cuore pulsare più lentamente come se potessi percepirlo in slowmotion. Posso vederlo lì sotto lo sterno contrarsi e distendersi asimmetricamente.
Mi porto una mano al petto. Ho paura.
Guardo i volti intorno a me: pelle sfumata si confonde tra fumo artificiale e i colori dei faretti, sorrisi vengono distorti fino all’inverosimile e i movimenti traballano veloci circondandomi claustrofobicamente.
Alla fine accade: un muro nero parte dallo stomaco, posso vederlo distintamente salire veloce e inesorabile.
Mi afferra la trachea in dure dita corvine, passo dopo passo lo sento stritolarmi la gola.
Mi sta per prendere.
Dio mio no.
Mi afferra la faccia salendo sugli occhi: una tenda scura sale cancellando progressivamente tutto ciò che ho davanti.
Sono cieco, non vedo più nulla.
Nulla.
Inizio a camminare per la sala a tentoni, non sono in grado di pensar niente, riesco a malapena a tenermi in piedi. Vado nella zona verso cui mi ricordavo ci fossero dei divanetti.
Le mani distese in avanti.
Intorno a me solo buio.
Apro gli occhi, li sgrano. Sono sicuro siano aperti, ma non cambia niente.
Buio.
So che c’è ancora musica intorno a me, sento il corpo vibrare, eppure non riesco ad ascoltar nulla.
Persino l’olfatto è in blackout totale.
Faccio qualche altro passo finché le mani non toccano una parete.
“S-s-shalvho… Forshe.”
A quel tocco riesco per un attimo a riprendermi dalla paura fottuta che mi afferra lo stomaco in artigli di piombo, mi sembra quasi di avere una speranza in più.
Adesso so dove sono: accanto ad una parete.
Porco cazzo è già qualcosa.
Son così felice che il mio corpo decide di gioire insieme a me: mi piego in avanti appoggiando il gomito al muro mentre un getto di vomito acido fiotta caldo dalla mia bocca verso il basso.
Man mano che sento quella brodaglia eterogenea sgorgare dalle labbra vedo il muro nero abbassarsi: gli occhi riprendono un minimo di visibilità e la musica delle casse riesce a raggiungere ovattata il mio centro nervoso.
Tutto questo dura giusto il tempo di vedere il tizio su cui avevo appena vomitato alzarsi imponente su di me urlandomi qualcosadi incomprensibile. Si aggiusta la camicia guardando verso il basso schifato mentre un filo di bava densa mi pende dal lato della bocca.
“H-h-hey ‘mico, ss-ss-sshcusha.”
Solleva lo sguardo dalla sua camicia su di me e in un movimento ai miei occhi velocissimo mi spinge lontano da lui per poi caricare un destro sopra la spalla.
Il mio corpo subisce l’urto e vola via mentre il delicato equilibrio con il muro nero si infrange: ritorno cieco e senza sensi. Colpisco qualcuno alle mie spalle e crollo a terra riprendendo a vomitare istericamente.
Sopra di me si scatena l’inferno: qualcuno mi cade addosso, sento il pavimento tremare e, nei pochi momenti di lucidità improvvisa, grida da strada si accavallano sulle note distorte della musica.
Non ho la minima idea di ciò che stia accadendo, non mi interessa.
Comincio a gattonare per terra, sono di nuovo nel buio più totale e di tanto in tanto muovo una mano davanti a me a tentoni. Dopo qualche secondo di ricerca tocco un tessuto che sembra pelle.
Forse ci sono.
Sollevo la mano verso l’alto percorrendone il profilo: okay è una poltroncina.
Mi ci arrampico sopra con uno sforzo paragonabile ad una sessione d’allenamento di Rocky Balboa e riesco a sedermi.
Bene, so che lo devo fare. Facciamolo.
Poggio i gomiti sulle ginocchia reggendomi la fronte con le mani: si ricomincia.
Resto in quella posizione per cinque minuti o cinque ore, non ho la minima idea di quanto tempo stia passando. Mi interessa solo levarmi tutta quella merda dallo stomaco sputando fra un conato e l’altro.
Dopo un po’ sento i sensi ritornare e il cervello riprendere ad ingranare.
“Ragaschi ci shiete?”
“Prrva pvttan’, ‘ica tnto.”
“MAH PÙ, MAH PÙ. NN BRRÒ MAH PÙ.”
“Mgr’ ‘n bcchrnp d’ prto a Natl?”
“NHH. MAH PÙ H DTT’.”
Piano piano sento anche qualcos’altro: un bussare sempre più insistente sulla mia spalla.
Ruoto lo sguardo in altro a sinistra.
È un buttafuori.
“Scusami, ma dovresti andartene.”
“Oh shi, certo fra. P-p-però dovrei prendere la g-g-giaccah.”
“Dai, vieni qua, ti aiuto io.”
Il gigante mi afferra da sotto le spalle è mi abbraccia accompagnandomi verso il guardaroba con gentilezza.
Ritiriamo la giacca e mi aiuta ad infilarla.
“Come stai amico?”
Gli rispondo limitandomi a guardarlo, il mio volto dovrebbe essere sufficiente.
Lo vedo che inizia a sorridermi: “Nottata di merda, eh?”
“Già, Gesù mi doveva un favore.”
Inizia a ridere dandomi pacche sulla spalla: “Vecchio sei proprio cotto! Dai andiamo fuori, reggiti a me.”
Mi afferra da un braccio dandomi un’altra pacca dietro la schiena.
Non avrebbe dovuto: riprendo a vomitare.
“Ma Dio! Ne hai ANCORA?!?”
Cambia la presa e si porta dietro di me afferrandomi il collo della giacca con una mano e spingendomi con l’altra dietro la schiena.
“Attenzione! Largo, largo! Questo vomita!!”
Oscillo senza controllo mentre vengo spinto in avanti, superiamo la tenda in velluto ritrovandoci all’esterno davanti ad una fila di ragazzi e ragazze. Sono tutti perfetti nei loro vestitini, nelle loro sigarette fumate fino a metà e nei loro cocktail sgargianti.
“Ch’ chzz d’ uomh è ‘n’ che bv Vdka-Rdbll?”
“Ch’ funw ha fqttp il bion uecchio whishhky?”
“Q’nth mh ft’ schif’.”
“Assqggiq in tripl’ sech, imbeschiille.”
Mentre penso questo la mia bocca si apre, gli occhi si spalancano e lo stomaco si contrae.
Un getto di vomito parte orizzontale annaffiando un ragazzo con una camicia e un cravattino verde.
Le ragazze iniziano a gridare, il buttafuori bestemmia e altri ragazzi provano ad evitare il getto.
“Non mih shono dimenthicahto di voi shtronzzzetthi.”
Mentre vengo spinto giù dalle scale inizio a ruotare la testa a destra e a sinistra annaffiando quanta più gente possibile.
“Infulqtev’ i vpstru shuard’ d’ svfficuenza su phr ‘l chlo! AH! AH! AH!”
“Largo! Largo!”
“AIUTO!!”
“Questo qua spruzza!!”
Vengo portato fuori nel giro di qualche secondo e mi ritrovo da solo.
Lo spettacolo è finito, cala il sipario.
Il buttafuori mi lascia in mezzo alla strada e mi volto giusto in tempo per vedere gli amici che, da lontano, si avvicinano preoccupati gridandomi qualcosa.
Li guardo accennando un sorriso mentre sento due braccia forti, possenti e affettuose che mi cingono amorevolmente e mi accompagnano dolci a terra in un movimento armonioso e caldo.
Questo è quel che sento io. Non va esattamente così.
Nella realtà dei fatti svengo in mezzo alla strada accartocciandomi come un sacco di mele marce urtando la faccia contro l’asfalto.
Da quel momento in poi è buio. Ancora.
Sento il mio corpo allontanarsi dalla realtà per poi ritornare ad intervalli irregolari, la mente è troppo concentrata a non farmi morire per poter pensare ad altro. Pochi flash di lucidità mi vedono alle prese con delle bottigliette d’acqua: le bevo e le vomito qualche secondo dopo. Sento gli altri ragazzi parlare, non riesco a capir nulla, ma almeno la loro presenza mi conforta.
Ritorno nell’ombra dopo qualche secondo.
Mi risveglio e sto vomitando in stazione.
Quanto tempo è passato?
Secondi? Ore?
Come sono finito in stazione?
Non ne ho idea.
Provo a rimettermi in piedi mentre le mani di Gustav e Ferenc mi aiutano a sollevarmi.
“Non siamo riusciti a trovare nessun taxi disposto a riaccompagnarti a casa…”
Mento: “T-tranquilli, tanto ora s-s-sto meglio.”
Mi guardano storcendo la bocca: “Magari tra poco qualcuno vorrà portarti su… Piuttosto, ce li hai i soldi?”
“Certo fra, certo. Anzi, grazie mille di tutto… Quanto ho vomitato?”
“Con noi? Con noi circa tutti i due litri d’acqua che abbiamo provato a farti bere.”
Sento il cervello che inizia ad ingranare ancora, i pensieri son più lucidi e immediati, dopo mezzora riesco persino a riacquistare un po’ di controllo fisico, il che si traduce nel camminare senza cadere.
Dopo qualche minuto un taxi si accosta. L’autista mi squadra velocemente e sospira sollevando gli occhi al cielo: “Dai, salta su.”
Gli altri distendono le spalle sollevati, li ringrazio ancora ed entro in macchina.
“Allora, dove ti porto?”
Gli do l’indirizzo e nel giro di 10 minuti siamo a casa.
“Sono dieci euro.”
Apro la tasca interna della giacca, afferro il portafoglio e lo apro: il deserto.
Mi mordo un labbro e giro la testa verso di lui: “Ehm, amico… Non ce li ho.”
Vedo il tassista sbattere un palmo contro la fronte mentre sussurra fra se e se: “Lo sapevo. Lo sapevo io che dovevo prenderne un altro, porca mad-”
Lo interrompo: “P-p-però n-non preoccuparti! C’è un bancomat qua vicino, g-g-guarda è lì davanti!”
“Hai il bancomat?”
“Certo!”
Lo vedo tranquillizzarsi mentre spegne il motore.
“Sbrigati.”
Attraverso la strada mentre stringo ancora il portafoglio in mano, arrivo allo sportello e tiro fuori la tessera inserendola nella fessura.
*Inserire il codice di sicurezza*
“Bene allora, 12345. Voilà, me lo ricordo ancora.”
*verifica codice in corso*
“…”
*Codice di sicurezza errato, tentativi rimasti: 2*
“C-come?!?”
“Allora, dai. Un bel respiro. Concentriamoci.”
Muovo piano piano l’indice sulla tastiera ripetendo i numeri a mente: “UNO, DUE, TRE, QUATTRO e CINQUE.”
*verifica codice in corso*
“…”
*Codice di sicurezza errato, ultimo tentativo rimasto*
“OH PORCO CAZZO!!”
“GESÙ GESÙ GESÙ GESÙ GESÙ GESÙ!!”
“Allora ragazzi, con calma. Forza, non può finire così questa serata. NON PUÒ FINRIE COSÌ QUESTA SERATA. NON COSÌ. VI PREGO.“
Mi piego sulla tastiera fino ad arrivare a dieci centimetri dai pulsanti, le gambe tremano appena e l’ansia del momento ha reso il mio cervello stranamente freddo e lucido per qualche secondo.
Focalizzo lo sguardo sull’indice e inizio a digitare una cifra alla volta al rallentatore mentre sento il *beep* elettronico.
“UUUUUUUNO *beep* DUUUUUUUE *beep* TREEEEEEEE *beep* QUAAAAATTRO *beep* e CIIIIIINQUE *beep*”
Attendo mentre una goccia di tensione mi cola dalla tempia fino al mento.
*verifica codice in corso*
“…”
*verifica codice in corso*
“…”
*Selezionare cifra da prelevare*”
“EDDAJE!!”
Prelevo e torno dal tassista pagandogli i dieci euri.
“Considerando la nostra condizione direi che ci è andata più che bene.”
Mi incammino verso il portone ondeggiando, inserisco la chiave nella fessura dopo una decina di tentativi e qualche imprecazione dopodiché salgo le scale.
Una volta a casa bevo mezzo litro d’acqua per poi vomitarla dopo qualche secondo in bagno.
Mi guardo allo specchio e guardo un volto non mio, imprimendomelo nella memoria prima di andare a letto.
Epilogo.
Il lettore si starà ora chiedendo: “Ma la rissa?”
Da quel che mi hanno raccontato, dopo che il PZV (palestrato zuppo di vomito) mi ha spinto via ho urtato un buttafuori. Il punto è che il PZV aveva già caricato un pugno e l’aveva fatto partire contro un me che, qualche nanosecondo dopo, si sarebbe accasciato a terra tra spasmi addominali e ciechi conati.
Il risultato è stato un buttafuori colpito alla mascella.
Devo davvero spiegarvi com’è andata a finire? Il buttafuori ha reagito con una notevole incazzatura.
Risultato banale? No. Il PZV aveva parecchi amici.
Ne è risultata una baraonda dove il buttafuori si è ritrovato all’inizio solo contro cinque palestrati feriti nell’orgoglio (ma quale?) che successivamente si sarebbero feriti anche fisicamente con l’arrivo di altri due buttafuori.
Ah già: sembra che involontariamente il mio cieco gattonare abbia anche fatto inciampare e cadere all’indietro uno dei palestrati.
Yea.
Clicca QUA per il prossimo capitolo: L’Addio!
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