Se quella che sta per cominciare fosse semplicemente una storia, sarebbe semplice spiegare di cosa si tratta. Ma questo è un viaggio da una costa all’altra attraverso le 21 lettere dell’alfabeto. Un viaggio diviso in tre parti, ogni parte “conta” sette lettere.
In fin dei conti è uno schema, un adattamento a uno stile di vita: la paura di non riuscire più a mettere un piede dopo l’altro.
Alfabeto
Parte I – Partenza
E come Entrare
Prima di convivere in un nuovo appartamento con Felicita vivevo in un monolocale di mia proprietà ereditato da una vecchia cugina di mia madre, per via della sua infelice posizione decisi di attribuirgli il nome di cantina.
La prima volta che Felicita mise piede in cantina la colpì soprattutto l’ordine in cui tenevo i miei quaderni. Ho sempre avuto l’abitudine di scrivere a mano e poi ricopiare al computer, scrivendo solo con gli indici.
Avevo paura di scendere di nuovo in cantina. Era un posto che esisteva prima di Felicita e che poi ha ripreso vita dopo di lei. Felicita non ci aveva passato più di qualche notte.
Avevo paura di perderla totalmente, come se tornando in un posto che avevo vissuto in minima parte con lei avrei preso totalmente qualsiasi ricordo che avevo avuto di lei, ma non avevo scelta: dovevo lasciare l’appartamento, non potevo continuare a vivere in un posto nato assieme a lei. Avrei retto poco e il fattore emotivo mi avrebbe distrutto.
La cantina era un ambiente sicuro, ma sentivo il bisogno di togliermi da dentro una sensazione definitiva e morente.
Il silenzio è sempre stato il mio coinquilino, anche se in una situazione del genere mi faceva quasi paura. Ho sempre avuto l’impressione di non stare bene da solo con me stesso, però spesso e volentieri mi ci ritrovavo. Era strano, non ci stavo più bene nella cantina, come se fosse un essere senziente che non mi accettava più, dove non avrei più potuto creare i miei mostri fatti di carne e d’acciaio. Ci avevo giocato per troppo tempo, prima per rischiare di distruggerli, poi. Fu quasi una rivelazione ritrovare in cantina tutto quello che avevo lasciato, li avevo dimenticati, li avevo quasi ritrovati per caso. Erano lì da sempre, da prima di Felicita e anche dopo di lei c’erano ancora, come la cantina che li conteneva.
Invece, l’isola era uno sputo di terra in mezzo al mare sequestrato dall’uomo per farne un insediamento umano. L’uomo portò sull’isola altre specie oltre alla propria, i cosiddetti animali domestici che, sono stati costretti a convivere con quelli autoctoni. Per colpa della convivenza forzata fui unico testimone e giudice di un avvenimento che mi lasciò esterrefatto: un gabbiano dalle grandi ali bianche si buttò in picchiata su un cortile aperto, dove razzolavano una chioccia con i suoi pulcini di poche settimane, per catturarne uno. L’uccello volò rapido sul tetto più vicino per beccarlo sulla testa e smettere così quegli sterili pigolii, vani tentativi di difesa. Col becco cominciò a spennarlo e subito dopo passò alle interiora provocando l’interesse dei suoi simili che si contesero le ultime interiora dell’uccellino strappato poco meno di un minuto prima da sotto la madre.
Sconvolto dal fatto che questo tipo di crudeltà fra simili sia passato dall’uomo ad altre specie, rincasai nell’eredità lasciatami sull’isola da mia nonna.
Forse era la fame o la sete, non saprei dirlo con certezza, era di certo un riabituarsi alla mancanza di ritmo. Con Felicita vivevo in una zona della città attraversata da un continuo traffico aereo. Abituarsi ai ritmi dei mezzi pubblici è stata una delle esperienze più violente della mia vita come svegliarsi nel pieno della notte per un rumore forte e istantaneo.
Scegliere di vivere assieme a un’altra persona vuol dire, anche in minima parte, rassegnarsi alla finzione. Non era la prima volta che mi capitava di riprendere i miei passi, come sassi recuperati dopo che sono caduti dalle tasche in un cammino stancante, non per la sua lunghezza, ma per la profondità. Non potevo fare a meno di pensare che se ti abitui a dividere i tuoi spazi vitali con un’altra persona, quando poi la vita ti costringe a dividerli con la solitudine rimani spiazzato.
Avevo bisogno di respirare di nuovo aria di casa, quanta più ne avevo persa in mille traslochi (che poi si fa sempre per dire, perché non sono stati più di venti). Sull’isola mi sembrava di averla ritrovata.
Dentro quella casa che mi raccontava tutte le storie che io stesso avevo vissuto lì, sentivo di cambiare pelle, farmi serpente e mangiare le scaglie che perdevo.
Quando Felicita ed io ricominciammo a passare del tempo assieme, era una mattina fredda e umida d’inizio febbraio. Il lavoro diminuiva sempre di più ed io buttavo tutte le mie energie nel tentativo di sostituirlo. Ero uscito presto da casa, dovevo pagare le tasse, chiedere i benefici che il reddito (quasi zero) con cui vivevo mi permetteva, entrai in un sale e tabacchi per un pacchetto di sigaretta, i proprietari si lamentavano con una cliente della nostra generazione viziata e fui servito solo quando finirono di usarmi come capro espiatorio. Ero a piedi e scelsi di prendere la strada più lunga per tornare in cantina, passando per il mio bar preferito nel quale non entravo dall’estate scorsa. Chiesi un caffè e impiegai i trenta secondi di preparazione contemplando una vecchia foto del centro cittadino, mi porse il caffè, lo tracannai e ripresi la mia strada. Vicino al bar c’era una bancarella di libri, mi attardai giusto per vedere i titoli dei testi che i miei concittadini eliminavano dalle librerie.
Quella mattina quando uscii di casa sapevo che il mio fine ultimo non sarebbe stato solo pagare le tasse, sapevo che mi sarebbe successo qualche altra cosa, qualcosa di meglio e infatti, successe: Felicita. La incontrai mentre scendevo verso casa mia, doveva fare una ricerca in biblioteca su non so che impero della storia. Ci salutammo, ci scambiammo convenevoli e ognuno riprese la propria strada, sapendo che non sarebbe finita lì.
“Una probabilità su quanti milioni di possibili varianti ci aveva permesso di incontrarci?” Questa domanda mi tarlò lungo tutto il tragitto verso casa.
La fila alla banca, l’andare nell’altro ufficio a chiedere lo “sconto” sulle tasse da pagare, il perdere tempo nel sale e tabacchi a sentire l’ennesima critica a noi giovani sfaticati, prendere un caffè e infine, attardarmi vicino alla bancarella: tutto questo fu necessario per incontrarci. Era il fine ultimo di una giornata, che se non fosse stato per quell’unico incontro, non avrei sentito il bisogno di ricordare.
Prima di rivederci per caso quella mattina erano passati alcuni mesi dal nostro ultimo litigio. Avevamo deciso di separarci, ma quella forza strana che qualcuno chiama destino ci fece incontrare, di nuovo.
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Clicca qua per il sesto capitolo: F come Forse.
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P.S. L’immagine in copertina è un’opera di street art che si trova ad Alzaia Naviglio Grande (MI)