Alfabeto ESPERIMENTI LETTERARI

Alfabeto – Parte I – A come Addio

Scritto da Noise

Se quella che sta per cominciare fosse semplicemente una storia, sarebbe semplice spiegare di cosa si tratta. Ma questo è un viaggio da una costa all’altra attraverso le 21 lettere dell’alfabeto. Un viaggio diviso in tre parti, ogni parte “conta” sette lettere.

In fin dei conti è uno schema, un adattamento a uno stile di vita: la paura di non riuscire più a mettere un piede dopo l’altro.

Alfabeto

Parte I – Partenza

A come Addio

Il giorno che decisi di smettere di fumare ci riuscii solo per circa mezz’ora, poi cominciarono a vorticarmi pensieri lunghi come i cavi della corrente che serpeggiano per la città: “Io ho la convinzione del precario, io non devo altre spiegazioni se non a me stesso, in vita mia sono sempre stato convinto solo di una cosa: la mia precarietà. Mi ha sempre rassicurato sapere quanto gli altri siano convinti della scarsità dei miei mezzi. Non parlo di soldi. Di quelli, ora come ora, ne ho abbastanza. Il fatto è che io prendo ispirazione soprattutto dalla precarietà, altrimenti non avrei molto da raccontare. Ho sempre disprezzato il fasto, i trucchi, i colori esagerati, l’esasperazione. Nella precarietà ho sempre visto una forma d’espressione più forte, perché ciò che rimane è essenziale e in una storia, qualsiasi storia, non c’è bisogno che di se stessi per poterla raccontare.
Chi ha pochi mezzi, vuol dire che li userà tutti pur di raccontarsi. La necessità è altresì certezza perché se si ha la necessità di raccontare una storia, si ha anche la certezza di volerla raccontare e bisogna farlo col proprio alfabeto: Addio non è una parola, è una fucilata, e quando è una donna a dirtelo, è peggiore. Tu ancora non te ne sei reso conto, ma lei è già arrivata alla seconda “D”, tu le chiedi il caffè e la “I” è già bella e scritta. Ed ecco all’improvviso la “O” per colpirti come una spada di Damocle; pronta a tirare l’ultimo fendente e tranciarti il capo perché al posto di Damocle ci sei tu e lei concluderà il tutto sbattendo la porta quando uscirà dalla tua vita.

Era circa il cinque novembre quando mi accorsi di essere solo. Felicita era andata via da alcune ore carica di valigie. Mi accorsi di essere solo quando, sotto la doccia, imprecai contro una scarica d’acqua gelata e nessuno mi rispose, per riflesso condizionato, o meglio per abitudine, mi aspettai che qualcuno inveisse a difesa di santi e patroni o almeno ne attribuisse colpa alla caldaia.

Ero stanco, questo sì, e invece di cambiare aria, cambiai lavoro.

Pronto Massimo, ciao sono Bruto.”

Che c’è?”

Domattina ho bisogno di vederti.”

A che ora?”

Presto.”

C’è qualcosa di urgente?”

Niente di che.”

Abbassai la cornetta e rimasi lì, steso sul quel divano scomodo che aveva scelto Felicita, a guardare il soffitto. La casa era silenziosa, troppo. Poco alla volta mi ero reso conto che Felicita non scherzava. Ero convinto che fosse tutto dovuto a una lite più accesa del solito e che le valigie che stava preparando servissero ad aggiungere teatralità all’evento.

A dir la verità era stato particolarmente patetico, sì, perché eravamo su due registri diversi. Io, stranamente pieno di energie, ero scattante, alzavo la voce per reclamare mie verità; lei, invece, non riusciva a guardarmi in faccia e nemmeno riusciva a rinfacciarmi le mie colpe. Forse ha sbagliato lei perché io sono un immaturo e mi ha sempre dato poco ed io volevo di più dal nostro matrimonio. Non che glielo avessi mai chiesto, però avrebbe dovuto capirlo perché io semplicemente non riesco a dire ciò che voglio dagli altri e sono riuscito solo a chiederle: perché vai via?

E lei avrebbe risposto: sono stanca.

Ed io: di cosa?

E lei: di te!

E di nuovo io: come?

Invece nulla. Silenzio. Felicita a prepararsi le valigie ed io a guardarla.

Felicita ed io vivemmo una crisi dei sentimenti rendendocene conto solo quando finì.

Non voleva credere che un uomo non provasse a fare l’impossibile per non affondare col proprio lavoro prima di cambiare faccia e trasformarsi in altro. La decisione di lasciare il giornale incrinò ancora di più la nostra relazione. Io e altri due colleghi decidemmo di crearne uno nostro, il lavoro aumentò, uscivo presto e rincasavo tardi, non potevo mancare a nessuna riunione, l’organizzazione del personale era compito mio e quindi scrivevo poco, per lo più ricopiavo comunicati stampa.

La sera in cui capì che dovevamo risolvere quella situazione di stasi fu quando tornai a casa, ubriaco fradicio, giusto il tempo di lavarmi i denti e quasi stupendomi di ritrovarmi nudo davanti allo specchio. La casa era calda, il letto freddo, trovai un messaggio sullo specchio in cui mi diceva che sarebbe uscita con delle amiche.

Fu una scarica d’acqua gelata, mi si chiusero i polmoni e respirai a stento.

Non ero malato, solo molto stanco. Arrivai scalzo a letto, evitando la segreteria telefonica, sapendo che nessuno ci aveva cercato. I piedi gelidi che facevano quasi male.

Appena mi stesi mi ricordai che ero a digiuno dalla colazione e per non svegliarmi ancora più affamato mi costrinsi a prepararmi qualcosa da mangiare.

Avevo fame, mi spaventava quasi mangiare da solo, non sapevo che altro fare.

Misi un vecchio film per sforzarmi di restare sveglio e aspettare il ritorno di Felicita.

Felicita? C’è qualcosa che non va?”

Sono stanca di dover fare la prima mossa, di cambiare mille cose sperando di scalfire la tua indifferenza.”

La solita esagerata, non capisci i veri problemi.”

Io non capisco? Bruto, non chiedermi di essere ipocrita.”

Lo sai che odio queste frasi a metà.”

Felicita uscì di scena chiudendosi dentro la stanza da letto e mi avvicinai alla porta per ascoltare quello che faceva, ma non ebbi nemmeno il tempo di avvicinarmi alla porta che lei, come un fulmine, uscì. Stavo quasi per cadere a terra, colto dalla sorpresa.

Tu sei un dittatore!”

Ogni mia azione era, per lei, un errore. Me lo ripeteva spesso e quell’aggettivo, quel nome, quel vergognoso pezzo di storia le saliva dallo stomaco fin su alla bocca, passando per la trachea: “FASCISTA, FASCISTA, FASCISTA.”

Facevo cadere il sapone. – FASCISTA.

Sgocciolavo sulla tavoletta del cesso. – FASCISTA.

Pazza.” Le urlai contro.

Fascista.” Replicò contro di me.

PAZZA – FASCISTA.

PAZZA – FASCISTA.

PAZZA – FASCISTA.

PAZZA – FASCISTA.

La follia è la malattia autoimmune della società, la follia è dei ribelli: di chi non annuisce a comando, di chi non ha paura di rispondere, di chi continua a mettersi nei guai; chi non capisce le azioni degli altri subito li bolla come folli. E tu non sei da meno.”

Io almeno so riconoscere un vero fascista quando ne vedo uno.”

Perché fra simili vi riconoscete a naso.”

E così continuavamo per parecchio tempo, sembravamo due tennisti nel campo degli insulti, dritto e rovescio con qualche punto in volé.
Alla fine era difficile capire chi avesse vinto e chi no…

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Clicca qua per il secondo capitolo: B come Bruto.

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P.S. L’immagine in copertina è un’opera di street art che si trova ad Alzaia Naviglio Grande (MI)

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Sono Noise, il rumore. Sono il battito del cuore e l'affanno del respiro. Sono il ticchettio che ti tiene sveglio la notte. Sono il ronzio che ti perseguita assieme all'afa estiva. Sono il disturbo di frequenza mentre cerchi la tua stazione radio preferita. Sono i tuoi passi che battono sull'asfalto quando vuoi stare da solo. Il rumore ha un colore e una voce, la mia.
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Ho una casa o meglio un club e puoi trovarmi là: noisclab@gmail.com

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