Alfabeto ESPERIMENTI LETTERARI

Alfabeto – Parte I – B come Bruto

Scritto da Noise

Se quella che sta per cominciare fosse semplicemente una storia, sarebbe semplice spiegare di cosa si tratta. Ma questo è un viaggio da una costa all’altra attraverso le 21 lettere dell’alfabeto. Un viaggio diviso in tre parti, ogni parte “conta” sette lettere.

In fin dei conti è uno schema, un adattamento a uno stile di vita: la paura di non riuscire più a mettere un piede dopo l’altro.

Alfabeto

Parte I – Partenza

B come Bruto

 

Per giorni pensai al dolore, alla morte, alla fame.

Mi ripresi, pensai che non volessi impazzire, non potevo impazzire. Indossai la tuta e uscii da casa, correre era l’unica cosa che mi restava, correre su una strada dove c’ero solo io. Vedevo gli altri frequentatori della strada, i giovani in amore, gli anziani con le mani dietro la schiena pronti a criticare chiunque, e tutti quei bambini su altalene e giostre varie. Volevo ignorarli, avevo voglia di considerare le loro azioni come insonorizzate o almeno non avrei voluto vedere tutta quella loro felicità.

Solo, solo, solo…quella parola mi rimbombava nelle tempie assieme al pensiero che il dolore era troppo forte da sopportare, dovevo imparare a conviverci.

Provavo a giustificare la mia solitudine affermando di voler stare in questo stato per via di una mia scelta, perché stavo meglio così. In verità io non volevo stare in questa situazione, dovevo restarci. Ormai lei era andata, non potevo farci più nulla.

Anzi no, potevo ancora risolvere tutto, mi diressi lì, dove sapevo che l’avrei trovata. Presi una rincorsa.

Corsi a perdifiato, corsi come mai avevo fatto prima.

Attraversai la strada senza fare troppo attenzione al traffico e d’improvviso mi trovai sbalzato sul marciapiede dall’altra parte della carreggiata.

Ehi amico, ma non guardi quando attraversi?” Urlò un uomo uscendo da un’utilitaria molto piccola. Mise l’auto in folle, si avvicinò a me che ero già in piedi.

Non preoccuparti, sto bene.” Balbettai.

Aspetta, ti porto da un medico.”

Non ho tempo.”

Come no!” Esclamò l’uomo tenendomi per il braccio.

No, vuol dire no. – Imposi divincolandomi. – “Devo andare!” Urlai riprendendo a correre.

L’uomo risalì in auto bestemmiando qualcosa fra i denti, guardandomi correre come un pazzo in quella tuta sgargiante.

Continuavo a ripetermi che non sarebbe tornata più e che non potevo farci nulla. Continuavo ad accusarmi di stupidità assoluta e continuavo a correre sentendo il cuore battere forte, il sudore scorrere per il corpo, il respiro pesante e maledicevo il catrame nei polmoni.

In breve arrivai sotto casa sua, non dovetti nemmeno suonare il citofono o chiamarla dal balcone. Lei era in strada. M’illusi che mi stava aspettando.

Corsi verso di lei con una morsa allo stomaco e gli occhi che stavano per scoppiarmi. Attraversai la strada e ci trovammo una di fronte all’altro.

Lei mi saltò addosso, i pugni già pronti a colpirmi, io la scansai.

Il tempo si dilatò. Lei fu a terra, in mezzo alla strada, un camion si fermò e lei scomparve per ritornare subito dopo, senza vita.

Io ero di fronte a lei, immobile, eterizzato, con i muscoli completamente in tensione, come in una paresi completa. Le ultime forze che mi erano rimaste le usai per restare in disparte da qualsiasi azione, non fui in grado di fare altro. Poi col tempo il senso di colpa aumentò perché avrei potuto aiutarla e salvarla. Già, forse. Tornai a casa e mi sembrò che fosse passata un’eternità mentre era successo tutto alcune ore prima. Restai in ascolto del mio silenzio, cercai pensieri per argomentare le mie ragioni e non fui in grado di trovarli.

Uscii sul balcone per fumare, anche se Felicita non c’era più, l’abitudine supera l’abbandono. Fuori faceva freddo, una cappa d’umidità mi sovrastava, non che m’importasse tanto. Guardavo le auto, i camion, i lampioni e gli uomini che tenevano sveglia la città.

Era stata lei a volere un appartamento così in alto.

Mi ritrovai con una casa che non sentivo più mia.

Rientrai nell’appartamento che una volta era il nostro, all’improvviso mi dette fastidio la puzza di fumo addosso, mi spogliai e mi buttai sotto la doccia.

L’acqua tiepida mi tolse da dosso la puzza di fumo, l’umidità che avevo preso fuori e la fatica degli ultimi giorni.

Mi stesi sul letto con i capelli ancora bagnati e con le mani sotto la testa a osservare il soffitto, rimasi così per alcune ore finché il sonno, lentamente non mi fece crollare. Mi svegliai, non fu un risveglio, fu un sobbalzo.

Non avevo voglia di alzarmi, sarei voluto restare ad ascoltare la città che fuori dalla finestra già si muoveva. Quando mi spostai nella parte fredda del letto, avvertii il dolore alle ossa e presi la decisione di alzarmi.

La giornata peggiorò, me ne accorsi quando portammo il feretro nella chiesa, non ero ancora riuscito a versare una lacrima, il dolore mi opprimeva il cuore e non riuscivo a pensare a nulla se non a lei. Se chiudevo gli occhi, rivedevo i suoi.

Spostai distratto lo sguardo dalla bocca del prete alla bara posta dinanzi all’altare.

Humpty Dumpty sat on a wall.

Humpty Dumpty had a great fall.

All the king’s horses and all the king’s men.

Couldn’t put Humpty together again.

Era una cantilena veloce e continua, non riuscivo a togliermelo dalla testa, come un chiodo che per forza voleva entrare. Spostai lo sguardo dietro le spalle, vidi la chiesa gremita di gente, molti piangevano ed io mi sentivo così colpevole. Dopo che il prete pronunciò le parole per terminare la cerimonia alcuni seguirono la bara contenente il corpo freddo di Felicita che attraversava la chiesa e arrivava al cimitero. Per tutto il viaggio non spostai lo sguardo dalla targa del carro funebre, non piansi, ma il vuoto che provavo dentro bastò a farmi sentire in colpa.

Felicita fu tumulata in una fossa povera e senza lapide, che non era ancora pronta, pochi hanno il corredo funebre già pronto per il giorno della loro sepoltura.

Il sole si ostinava a non conferire una giusta atmosfera all’occasione. Era metà novembre e faceva quasi caldo, gettammo alcuni fiori sulla tomba e subito dopo iniziò in tutto il suo splendore la danza dell’ipocrisia fatta da strette di mano, baci alle guance e finto cordoglio.

Mentre una specie di conoscente cercava di esprimermi le condoglianze, uscii di corsa dal cimitero. Appena fui fuori, corsi verso un pezzo di terra lì vicino e vomitai solo acqua sporca.

Come ti senti?” Chiese Luca, mio fratello, appena arrivato.

Uno straccio.” Risposi quasi senza fiato.

Pulisciti.” Mi disse porgendomi un fazzoletto

Non mi serve.” Dammi piuttosto una sigaretta.

Ma non avevi smesso?”

Ieri ho ricominciato!”

Ma non hai ripreso il vizio di comprarle?” Mi chiese sorridendo.

Anche mio fratello prese una sigaretta dal pacchetto e rimanemmo così, in silenzio, fumandoci alcune sigarette. Ci guardammo a lungo negli occhi, chiusi nei nostri pensieri.

Poi arrivò mio cognato, Federico, a distrarci.

Bruto come ti senti?”

Ora mi sento meglio.”

Ma che ti è successo?”

Tutte quelle persone mi hanno fatto girare le budella.”

E hai lasciato noi con loro?”

Scusami.” Provai a sorridergli.

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Clicca qua per il terzo capitolo: C come Capperi.

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P.S. L’immagine in copertina è un’opera di street art che si trova ad Alzaia Naviglio Grande (MI)

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Sono Noise, il rumore. Sono il battito del cuore e l'affanno del respiro. Sono il ticchettio che ti tiene sveglio la notte. Sono il ronzio che ti perseguita assieme all'afa estiva. Sono il disturbo di frequenza mentre cerchi la tua stazione radio preferita. Sono i tuoi passi che battono sull'asfalto quando vuoi stare da solo. Il rumore ha un colore e una voce, la mia.
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