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L’arte della fuga

Scritto da Eulalia

L’arte della fuga

 

 

Dalla credenza prese il pacco del riso. Nell’acqua bollente i chicchi scesero così lentamente da sembrare immobili, poi i moti convettivi che li trascinavano ne fecero una danza furiosa di ballerini, finché non precipitarono tutti. Arrotolò la plastica trasparente con le dita, le unghie levigate la incisero qua e là, il getto del rubinetto fece brillare la fede all’anulare sinistro; le maniche del golf lasciavano cadere qualche ciuffetto di lana sulla pelle candida dei polsi, un capello fuggitivo si era arrotolato tra i bottoni.

Si diede un’occhiata di sfuggita nella porta finestra della cucina che dava sul retro: fuori era così buio che il vetro si era trasformato in uno specchio nero, e le luci della stanza accanto gettavano bagliori intorno alla sua figura alta, elegante, stanca come una bustina da tè usata, un’arancia spremuta, una spazzola abbandonata nel bagno e piena di vecchi capelli. Sorrise e si rassettò i vestiti, tornando nel salotto. Le scarpe ticchettarono sul pavimento.

 

Quella mattina era andata al lavoro. Aveva parcheggiato la macchina ed era scesa sul solito marciapiede umido come faceva da quasi vent’anni. L’aria autunnale profumava di ombrelli arrotolati, di scarpe bagnate, la accarezzava il fruscio sordo delle ruote che passavano sulle pozzanghere e sulle foglie che volteggiavano e cadevano a terra, come lei, con tutta la grazia di un’ultima danza.

Aveva sbattuto lo sportello e compiuto i pochi passi che la separavano dall’ufficio, uno dietro l’altro, aveva sorriso a una passante. Aveva preso le chiavi dalla borsa, distrattamente, e si era avvicinata alla porta di vetro e acciaio dorato anni Sessanta. L’avrebbe fatta cambiare, quando avesse avuto un po’ di soldi.

Una mano si era poggiata sul suo braccio e lei si era fermata, con il viso chinato davanti alla porta. Aveva aspettato un istante a girarsi: il peso e la fermezza del contatto ne facevano una mano d’uomo, forse una di quelle mani grandi dalle dita affusolate, come le sue, e il profumo leggero che ne arrivava, appena percepibile, di dopobarba, tabacco e sudore, ne faceva la mano di un uomo di mezza età. L’aveva già visto un milione di volte, prima di guardarlo.

“Buongiorno, mi scusi.” Una folta barba castana nascondeva in parte il viso, due occhi grigi l’avevano fissata quieti, grandi, un po’ acquosi: “Sto cercando l’hotel Eden.”

“Continui pure su questa strada.” Avrà avuto quarantacinque anni, un cappotto troppo pesante per la stagione, una tasca che forse nascondeva un pacco di sigari e un accendino, un portafoglio con una carta d’identità. La fede al suo dito era diventata opaca: “Vedrà l’ufficio delle poste, tra poco, alla sua sinistra. Svolti là e vada sempre dritto.” Era a piedi. Stringeva una piccola valigetta. Fuggiva? “Arriverà in cinque minuti, si troverà l’Eden di fronte.”

“Grazie mille.” Aveva tolto gentilmente la mano dal suo braccio, quasi sorpreso di averla ancora appoggiata lì, come una cosa non sua.

“Io mi chiamo Livia.” Si era sorpresa a parlare di nuovo, gli aveva teso la mano destra mentre lasciava scivolare, quasi inconsciamente, la sinistra nella tasca. Spiazzato per un secondo, l’uomo aveva risposto al gesto.

“Guido.”Le aveva rivolto un largo sorriso. Le sue erano mani grandi, dalle dita affusolate.

Aveva fatto ruotare la chiave nella porta, aveva salito le scale.

 

Guido

La grafia di Livia era nitida ma sottilissima, tutta inclinata verso destra, slanciata.

 

Livia era andata in ufficio, aveva sbrigato le pratiche, aveva ascoltato i clienti. Aveva pensato tutta la mattina a quell’uomo, alla valigetta, alla fede, alla barba castana.

I suoi passi più veloci sul marciapiede, dietro le scarpe lustre sul cemento, la sua mano tesa gli avrebbe tirato un lembo della manica.

“La accompagno.”

La porta dell’ufficio l’avrebbe guardata allontanarsi.

 

Se fuggivi davvero eri sciocco quanto me. Non te ne sei accorto? Non c’è scampo, quella che vediamo ogni giorno è la nostra felicità.

Gli dava del tu, per scritto. Prévert: “Io do del tu a tutti quelli che amo”.

 

“Ho un marito.” avrebbe detto. No, si sarebbe sfilata la fede, sarebbe entrata nella sua stanza, si sarebbe tolta il cappotto, o forse gli avrebbe offerto un caffè. Non gli avrebbe chiesto chi era perché aveva visto la ventiquattrore, la fede sbiadita e la paura nei suoi occhi.

 

Oppure vogliamo correre ancora, combattere ancora, e credere che la nostra soddisfazione sia davvero nella guerra? Dobbiamo alzare bandiera bianca. Crescere, lasciar entrare gli invasori.

Perché rifiuti il tuo ruolo? Alzati, lavora, torna alla tua casa, prepara la cena, bacia tuo marito. Aspetti il momento di scappare, ma non ne sei capace.

 

Un sogno, aveva pensato, cullata dal rombo del motore nel traffico, tornando a casa. Che colpa c’è in un sogno? Si era asciugata le lacrime e aveva posato la mano sul cambio. La fede bruciava alla sua sinistra.

 

È la mia tragedia, è la nostra tragedia. Ogni ex fumatore ha un pacchetto di sigarette in fondo ad un cassetto, e questa è la stessa tragedia, quella di chi non ha mai capito bene la vita.

 “Amore, sono tornato.”

Ho sempre più il sospetto che non ci sia niente da capire.

 “La cena è quasi pronta.” Baciò suo marito. Appallottolò il foglio, le fiamme del camino lo avvolsero: “Dammi una mano a apparecchiare.”

 

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Foto di copertina di Andrea Piccin.

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Eulalia

Sono una studentessa di Medicina a tempo pieno e una scrittrice a tempo perso, all’anagrafe ho ventidue anni. In realtà, credo di non averne compiuti ancora diciotto.

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