Esequie
La maggior parte della gente era già arrivata da un pezzo, forse un’ora, quando lo notarono. C’erano proprio tutti là attorno: gli zii di Parma, o quel che ne rimaneva, la badante che si era sposata il figlio, i nipoti più giovani, Matilde compita col bambino in braccio, che come al solito sembrava un fantoccino dipinto, con gli occhioni spalancati e silenziosi, aggrappato alla mamma. Mattia con gli inseparabili occhiali da sole sulle pupille bovine, la mamma, mio zio due passi fuori dalla porta con la sigaretta accesa, e poi lui, il signore col cappello.
Se ne stava immobile e impeccabile, col capo basso e le braccia distese. Non appena fu visto, un incrocio di sguardi corse furtivo per la stanza: di sottecchi, per non farsi scoprire dalla nonna, tutti si interrogavano a vicenda con gli occhi chiedendosi da dove fosse spuntato, chi fosse. Il cappello era un panama bianco, che risaltava in modo buffo in mezzo a tutta quella comitiva di jeans scuri e vestiti neri, proprio di fronte alla camicetta di seta di Matilde, abbottonata fino al mento, mentre la giacca era di un bel blu notte, come i pantaloni che gli cadevano fin sopra le scarpe. Perfino il macellaio, gigantesco ex campione di basket, lo guardava con curiosità, perché sembrava proprio che fosse piovuto dal cielo.
Iniziò a correre qualche mormorio per la stanza, mentre tutti cercavano di capire con chi fosse venuto –forse il nipote acquisito della Francesca, quello là che– o quando, ma a quanto pareva era là da solo, così compito nel suo ruolo che sarebbe parso proprio un peccato disturbarlo per chiedergli chi diavolo fosse. Sembrava esser comparso all’improvviso, senza farsi strada tra la piccola folla che si era radunata nella sala dalla forma ovale, senza chiedere permesso per far passare la sue larghe spalle spioventi. Se ne stava lì e basta.
La mamma, come al solito troppo agitata, si era avvicinata alla zia Katia, madre di Matilde e Marco, spettinandole i capelli cortissimi da donna emancipata con un sussurro: ma chi è? Lo conosci?
Anche la nonna ormai l’aveva notato, forse prima di tutti noi, e forse più di tutti attonita lo guardava senza preoccuparsi troppo di essere notata: io la capivo. Non succede tutti i giorni di incontrare facce nuove al funerale del proprio marito.
Fu proprio allora che l’ultima delle mie zie arrivò, trafelata, col marito dal sorriso bianchissimo e la figlia piccola per mano, ma se c’era un sfumatura di vergogna sulle sue guance per aver fatto tardi alle esequie del padre, nessuno la notò.
Il nonno era morto durante la notte, senza suscitare troppo stupore. Katia e Matilde erano state le prime ad intervenire sulla scena, consolare, sollecitare, telefonare: mentre la madre organizzava, la figlia si prodigava in interventi di carità, abbracci alla nonna, manicaretti per rifocillare gli animi, lacrime discrete, ma sincere. Il bambino sorrideva dal seggiolone come un angioletto, e ogni volta che lei lo guardava esclamava “Ah! Creatura mia!” e scuoteva commossa la testa, come per consolarlo della perdita del bisnonno appena conosciuto.
La casa si era via via riempita di gente, fiori e cartoline; la zia Katia aveva provveduto a far portare via la salma e mia madre aveva messo in tavola un pranzo per pochi. Mio zio, all’estremità più lontana del tavolo, fumava e guardava il Gran Premio, ma a un volume più basso del solito. Lo presi come un gran segno di rispetto.
Marco arrivò per il caffè, mentre la zia Giulia diceva che avrebbe fatto tardi –la bambina, il ristorante– per questo quando vidi il signore col cappello mi chiesi, davanti a quel silenzio e quel volto impassibile, se in fondo non fosse arrivato prima di tutti noi.
Il prete, impaziente, si stava avvicinando alla bara munito di incenso, ma la nonna lo fermò con un gesto della mano. Si rivolse all’estraneo, che non aveva mai smesso di fissare, senza troppa gentilezza.
“Scusi” disse “lei conosceva mio marito?” il brusio cessò, mentre lui rispondeva
“Certo. Abbiamo fatto la leva insieme.”
Quella risposta sembrò rassicurare un po’ tutti. Non potevamo certo conoscere uno per uno i militari con cui il nonno aveva fatto servizio militare, anche se nessun altro di loro si era presentato senza preavviso –avvisato da chi? – al funerale, ma quanti segreti può nascondere un cadavere? Era un po’ troppo tardi per chiedere spiegazioni. L’uomo col cappello riprese:
“Abbiamo amato la stessa donna. E, quando siamo tornati a casa, mi ha scritto delle lettere, anche se a lei molte di più. Io le ho lette tutte. Era mia moglie.”
Fu come se l’intera stanza avesse trattenuto il fiato; gli occhi corsero alla salma, che aveva finalmente risvegliato l’interesse generale. Il prete, sempre con l’incenso in mano, guardava la nonna che colta da un’improvvisa disartria provava a dire qualcosa. Io trovavo molto romantica quella storia segreta d’amore ed epistolari, ma fu Matilde, paladina della dignità, a parlare.
“Credo che lei abbia sbagliato funerale.”
Lui la guardò, ma il suo “credo proprio di no” fu coperto dalla voce astiosa di Giulia, che per la prima volta distoglieva lo sguardo dalla bambina che continuava a correre per la stanza importunando tutti gli astanti sotto l’occhio sorridente del padre. Mio zio, due passi fuori dalla porta, fumava.
“Forse potresti averlo sbagliato tu. L’hai visto più spesso da morto che da vivo.” al tentativo di difesa di Katia, rincarò la dose: “Non avete aspettato nemmeno mezza giornata per andare a casa. Avete già messo tutto negli scatoloni, eh? Chissà quanta roba è sparita.”
La mamma, sconvolta da quella terribile calamità familiare, si girava a destra e a manca –ma no, ma che dite, ma vi pare il momento– mentre la zia Katia inalberava un sorriso granitico e pregava gentilmente tutti di non raccontare sciocchezze, immobile. I cucchiaini d’argento tintinnavano nella sua borsa, se si muoveva.
La nonna, con lo sguardo fisso sull’uomo sconosciuto che non aveva abbandonato la sua serafica posa, ancora cercava di articolare il linguaggio, quando la nipote più piccola, sfuggita alla presa rabbiosa della madre, ripartì di corsa e le mollò un sonoro schiaffo sulla chiappa sinistra. Fu allora che svenne, precipitando tra le braccia del gigantesco macellaio.
“L’eteeerno riposo dona a loro o Signoreee” la voce nasale del prete sovrastò di colpo il parapiglia che si era creato, e mentre l’incensiera sventolava su e giù tutti si ricomposero. Accompagnarono la nonna alla macchina, mentre i becchini inchiodavano la bara, chiudendo quella storia una volta per tutte.
Mentre tutti uscivano a passi lenti mio zio, che era rimasto indietro, fermò l’uomo col cappello e gli si rivolse senza smettere si sbuffare fumo dalle narici:
“Allora, quanto di quel che ha detto è vero?” l’altro si scrollò nelle spalle.
“Assolutamente niente. O tutto, forse, per quel che ne sanno.”
Mentre la piccola processione si allontanava senza fretta dall’obitorio c’era un bel cielo azzurro sulle colline silenziose. Il podere dei nonni era poco distante, sempre lo stesso anche se con un po’ d’argenteria in meno, gli stessi gli olivi, i cipressi, il vento che arruffava il pelo ad un vecchio gatto che osservava incuriosito la scena dal muretto di cinta del cimitero. Sotto la voce lagnosa del prete, insensibile alle lacrime indignate o sconvolte, sopra il rumore di piccoli piedi che correvano sulla breccia del sentiero, correva un mormorio eccitato tra le labbra di tutti: nessuno riusciva a rammentare dove il pover’uomo avesse fatto servizio militare, in che città, perfino in che regione.
Neppure uno di loro ricordava che era stato riformato alla visita di leva, per un piccolo problema al ginocchio che gli aveva impedito di svolgerne anche un solo giorno; se ne fece un gran parlare nelle ore a venire, qualche volta perfino nelle successive settimane, di nascosto dalla vedova, finché ormai, a distanza di mesi, c’erano già delle certezze su quale fosse la città, quale il periodo, e perfino chi la donna misteriosa che aveva tanto amato. Nessuno vide mai più il signore col cappello.
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