Nascondersi
-Inizi-
La vita
In fondo, la vita, è un pessimo scherzo, bisogna prendersi poco seriamente altrimenti si finisce per impazzire.
Esaminiamo per un momento la storia di quest’uomo.
Continuava a sentir ridere i suoi vicini. Quegli schiamazzi gli martellarono la testa per ore, fino a quando non arrivò a pensare che lo stessero sfottendo. Questo costante chiodo fisso che gli si era conficcato nel cervello lo tediava di continuo, fino a farlo precipitare in un baratro di demenza senile: nella sua mente deviata, iniziava a credere che lo stessero prendendo in giro per tutti i suoi fallimenti in vita.
Basta. Era ora di agire: era un collezionista d’armi da sparo e quindi aveva solo l’imbarazzo della scelta. Andò in camera, vicino al suo vecchio letto matrimoniale. Prese una pistola a caso dal cassetto del suo comodino. Inserì, contandoli, quattro proiettili nel caricatore. Uscì dal suo appartamento. Fece le scale. Suonò al campanello. Mise il colpo in canna.
Il sudore gli scendeva lentamente dal viso, le mani dietro la schiena che impugnavano la pistola tremavano e intanto sentiva, sentiva e sentiva ancora quelle maledettissime risate.
Aveva di fronte a sé una porta chiusa, ma nella sua mente era altrove: quando sua moglie lo mollò per un trentenne, quando fu licenziato per problemi di alcolismo, quando fu cacciato dal suo vecchio lavoro da insegnante perché troppo vecchio. Il mondo l’aveva preso in giro troppo a lungo. Era il momento di riprendere il controllo. Il momento di far cessare tutte quelle risate una volta per sempre. Il momento di sparare quattro proiettili, mirati a terminare tutti i disagi che ebbe nella sua vita.
La porta finalmente si aprì.
Lui portò la pistola davanti al viso.
Mirò.
Premette il grilletto.
Coppia uccisa, anche il figlio.
Le risate c’erano ancora.
Era la tv.
Questa è la storia di come quello al piano di sotto l’altra sera ha svegliato un intero palazzo con quattro colpi di arma da fuoco, tre per la famigliola, uno per la propria personale figura. Uno spettacolo orribile, sangue su tutte le pareti.
In fondo bisogna prendersi poco sul serio.
Sono seduto su un divano logorato dal tempo. È completamente sporco di ketchup e ha un bel foro grande come una voragine proprio nel mezzo dello schienale. La tv è accesa e mi vomita addosso le solite cose.
Ultimamente mi ritrovo spesso così. Sono in cassa integrazione. Ho lavorato quattro mesi per una ditta edile. Quei quattro mesi mi sono bastati per una vita intera. Mi hanno licenziato. Taglio del personale, hanno detto. Fondamentalmente ora non hanno più bisogno di me. Sono stato considerato come una riserva.
In fondo è la mia filosofia di base, quella della riserva. Poca benzina, pochi soldi, poca cultura, poca bellezza, poco Dio. Una costante ricerca per la sopravvivenza. Orami il termine vivere nella mia routine non ha più significato, mi accontento di mangiare e dormire.
Spero solo di trovare i soldi per l’affitto. Trent’anni, forse mi meriterei qualcosa di più? Certamente, ma in fondo io chi sono per averlo? Mille sacrifici a alla fine dei conti non sono che un incompetente, inutile e improduttivo miserabile essere umano. Uno come molti.
Torniamo alla realtà. È ora di uscire. Ho un paio si appuntamenti abbastanza importanti.
Esco.
Fuori dal palazzo, gli scarafaggi delle informazioni in prima linea a decomporre i vecchi cadaveri di tragedie familiari, incidenti domenicali o scandali globali. Maledetti giornalisti. Sono qui per quello che è accaduto l’altra notte. Per un po’ mi tediano, mi fanno mille domande. Li ignoro.
Passandogli accanto penso a come vorrei saper scrivere anch’io. Portarmi lontano da dove sono, battendo piccoli tasti, viaggiando, via, via dalla galassia, via dalla realtà intera.
Fuggire.
Meglio di no. Alla fine dei conti farei sicuramente la fine di quello che non sapeva cosa scrivere:
In passato compose dei versi bellissimi, ma da un po’ di tempo a questa parte non era più capace di scrivere qualcosa di originale. Ci rifletteva, pensava e moriva sopra. L’ansia lo attanagliava. Sapeva di esserne capace, di avere le qualità per farlo, ma non riusciva a trovare uno straccio di argomento interessante sopra cui sputare parole. Solo pagine di cose già lette e vani tentativi scaduti nel ridicolo e banale.
Aveva senso piegarsi in due dall’agitazione? Diavolo, sì. Lui si contorceva, mordeva i tavoli, piegava tutte le posate della casa, tirava testate contro i muri e diventava tutto sempre peggio.
I suoi amici artisti dalla paura iniziarono ad allontanarlo anche perché provava una forte invidia per lo spirito creativo altrui, lo stesso spirito che tanto cercava e mirava ad avere. Iniziava, iniziava, iniziava, iniziava a odiare il bello, iniziava a ripetere le parole, iniziava a balbettare, a rompere tutti gli specchi di casa. Non sopportava più niente e nessuno, neanche l’immagine della propria persona. Non dormiva e non mangiava. Si fece crescere la barba e i capelli. Usciva solo la notte e girava in posti dimenticati da Dio.
Tutto questo fino a quando, in un giorno di mezza estate, in un vicolo angusto, la vide. L’amore della sua vita. La donna più bella del mondo. La sua Venere. Quelle labbra morbide color rosa, i capelli leggeri e di color ramato, gli occhi azzurri e delicati. Il suo fisico? Non ci provo neanche a descriverlo, sarebbe troppo difficile anche solo trovare gli aggettivi giusti.
Era talmente bella, splendida, sublime che lui non riuscì a trattenersi e digrignando i denti in pochi secondi le afferrò il collo e glielo ruppe.
Non la sopportava: era troppo bella.
So che ora è morto, stranamente non ricordo esattamente come.
-Come si sente?-
Solo
Certo che c’è gente assurda in giro, a volte mi chiedo se lo siamo tutti, se lo sono anch’io, anzi se in realtà non siamo che sette miliardi di testate nucleari inesplose.
Potremmo benissimo, e senza sbagliarci, considerarci un po’ tutti completamente folli, no?
Ognuno ha piccole manie o traumi: qualcosa che fa innescare dei meccanismi contorti dentro le nostre piccole testoline. Nessuno escluso.
Io da piccolo collezionavo sassi, erano i miei migliori amici. Ci parlavo, ci giocavo e poi quando ci litigavo li lanciavo via da me.
Ne avevo molti in casa, poi abitando in montagna avevo la possibilità di averne mille e se qualcuno non mi andava a genio semplicemente lo abbandonavo e ne raccoglievo un altro. Li preferivo di gran lunga ai bambini. Fondamentalmente perché non urlavano, non scalciavano e se ne stavano buoni buoni senza crearmi tedio e fastidio. Senza domande. Senza denigrazioni. Pura spensieratezza. Via da tutti. Solamente tra di noi in una solida amicizia: una di quelle che si fonda sulla comunicazione non verbale, di quelle che ci si capisce con solo lo sguardo.
Quando io e la mia famiglia ci trasferimmo in città, li portai con me, ma non era più lo stesso. Li vedevo tristi e sempre depressi, praticamente rigidi. Probabilmente era solo per l’ambiente completamente diverso, quindi li portai in un parco e li lasciai li, in un luogo a loro più vicino.
Iniziai a farmi dei nuovi amici: le scarpe da ginnastica. Pratiche, comode. Adatte alla città.
Adoravo starci insieme, correvamo ovunque. Le usavo anche per picchiare chi non mi stava molto simpatico e fidatevi, i bambini alle volte non sono per niente simpatici, anzi, sono proprio dei piccoli stronzi e quindi a scuola le usavo spesso come arma di difesa.
Tutto sommato ho avuto una bella infanzia.
Ho iniziato a capire al tempo delle medie che ero destinato solo a relazioni monogame: mi legavo a solo un paio di scarpe alla volta.
Non ho mai tradito nessuna.
Conoscevo un ragazzo che invece aveva un’ossessione per i palloni. Non aveva una madre e suo padre riversava su di lui tutte le sue frustrazioni indirizzandolo sempre e soltanto sul sogno d’infanzia negato: essere un calciatore.
Era un bambino a cui non fregava molto di far felice il babbo seguendo la strada per diventare un attaccante di fama eccelsa.
Lo faceva così, per far qualcosa. Fu però con questa ossessione del padre che scoprì la sua piccola mania.
Durante un allenamento, senza farsi notare si portò un pallone in spogliatoio e iniziò a lucidarlo, stette ore a strofinarlo sotto l’acqua calda delle docce.
Se ne innamorò.
Ora vive vicino allo stadio e fa il raccattapalle. Molte volte se le intasca e le porta a casa con sé, dove le accudisce per ore. Ha collezioni di sfere di cuoio. Infatti non è mai stato un tipo monogamo a differenza mia.
In tutta la mia vita solo una volta tradì una ragazza. Succedette con la mia prima ragazzina.
Lei era una circense. Non ero il tipo da donne normali, ho sempre avuto attrazione per le ragazze problematiche e stravaganti.
A scuola era una tipa taciturna e non legava mai con nessuno. Io adoravo come fissava tutto il tempo il soffitto e come sospirava. Sembrava come se desiderasse costantemente qualcosa di diverso.
Un giorno, durante la ricreazione, presi coraggio e mi feci avanti, le chiesi di uscire.
-Ti va oggi pomeriggio?-
Le dissi di sì, che per me era ok.
-Fatti vivo.-
Mi presentai, ed era lì sotto ad un albero del parco. Parlammo per ore, però notai che era un po’ diversa da come era la mattina.
Sembrava avesse acquisito improvvisamente una personalità sicura, decisa. Guardava sempre per terra, e ogni tanto sbuffava come se avesse troppe cose e nessuna di queste fosse reale.
Il giorno dopo la incontrai di nuovo a scuola. Venne verso di me con aria minacciosa e incantonandomi in un angolo mi disse:
-Adesso mi spieghi perché ieri non ti sei fatto vivo-
Le dissi che non sapevo di cosa parlasse. Che io mi ero presentato. Le volevo bene e ci tenevo a lei. Per me era stato un pomeriggio stupendo.
-Sei pazzo? Ieri non ti sei presentato! Perché ti comporti così?-
Dopo un breve litigata, la convinsi ad uscire di nuovo, però questa volta una domenica mattina.
Scoprì poi con il tempo che era schizofrenica e che cambiava personalità ogni dodici ore. Mi innamorai di ogni aspetto di lei. La mattina era la mia ragazza, il pomeriggio la mia amante, era la relazione perfetta.
Andammo avanti per un po’ di anni. Ebbi con lei le sue due prime volte.
Poi un giorno mi beccò a letto con se stessa e dandomi del porco mi piantò su due piedi.
Improvvisamente tornai solo, di nuovo con le mie scarpe.
Non ho mai sofferto veramente la solitudine, alla fine non lo siamo mai.
È il maledetto pianeta più abitato dell’universo.
Tra piante, animali, oggetti animati, come potremmo realmente dire di essere soli?
Forse è proprio il contrario, manca la solitudine e quindi ne abbiamo ideato un surrogato per capirne lievemente il concetto:
solitudine
[so-li-tù-di-ne]
s.f. (pl. -ni)
1 L’essere solo; condizione di chi vive solo: la s. lo rendeva triste; aveva bisogno di un po’ di s.; vivere in s.
2 Condizione, stato di luogo solitario: la s. delle grandi distese polari; la s. di un bosco
‖ Luogo solitario, deserto: le sterminate solitudini polari
Noi non siamo mai lontanamente soli. Prendiamo quello che viveva nel piano sotto al mio, quello era talmente stufo di avere gente/cose/piante/animali/santi tra le palle che decise di vivere in perenne quarantena. Mise delle sbarre di acciaio alle finestre e per entrare in casa costruì una camera di decontaminazione (per allontanare agenti esterni, batteri e organismi monocellulari).
Conosco qualcuno che per un periodo entrò in casa sua.
Mi ha detto che abitava in uno sgabuzzino di appartamento.
Ha solamente un letto e un frigo.
Le stanze sono asettiche.
Bianco. Bianco. Bianco ovunque.
Tutto sommato, piuttosto di diventare così ossessionato, la compagnia me la faccio piacere. Penso sia nella natura dell’esistenza il dover purtroppo condividere la nostra stessa vita con altre persone e/o animali (a volte le cose combaciano). Sono spesso affascinato nel confrontarmi con il mondo, esplorando le più strane e varie diversità. Non mi sono mai ritenuto una persona con pregiudizi.
La mia terza ragazza fu una ragazza di colore.
Era una delle ragazze più belle che io abbia mai visto. Intelligente, affascinante e interessante. Non c’era un suo movimento, una sua affermazione fuori luogo. Tutto era pensato, mai manifestato da un impulso infantile.
Anche se non lo dava a vedere molto spesso, soffriva molto il razzismo a cui era soggetta da alcuni imbecilli. Diventò con il tempo un ossessione, mentre io, dal mio canto, cercavo di tranquillizzarla ad ogni costo.
Per me sei una persona, non sei né nera né bianca.
-Tu non hai la minima idea di cosa voglia dire non essere accettati. Lo sguardo massacrante dell’altro, ti penetra anche la carne: ti arriva dentro lo stomaco e te lo buca. E questo solo per le occhiatacce, non puoi immaginare le sensazioni che provocano dentro di me gli insulti e le minacce-
Guardami, sono un demente pieno di manie.
Giro sempre con delle scarpe da ginnastica bianche sporche di rosso.
Ho pochissimi amici, e non faccio che collezionare traumi e ossessioni.
-No-
Era inutile parlarci, convincerla, supplicarla. Per lei non capivo e punto della questione.
Il tempo passò e il macigno della diversità la trascinava sempre di più in un baratro di depressione.
Un giorno lo fece.
Andai a casa sua.
Non era più nera.
Aveva deciso di voler diventare bianca e perdere la propria identità, e quindi fece un operazione chirurgica per sbiancarsi completamente il corpo.
L’abbracciai forte.
Non sopportavo quello che si era fatta. Più la guardavo e più mi ricordava solo un’ombra, un fantasma di un ricordo d’amore molto lontano. Mi lasciò.
Sconsolato e solo feci l’unica cosa sensata che avrei potuto fare. Piansi.
Piango un po’ anche ora.
-Cosa succede ora?-
Piove
Per fortuna inizia a scendere qualche goccia.
La pioggia. Mi sento un po’ meglio. Lava via i ricordi. Poi quando finisce di piovere è sempre tempo di iniziare qualcosa di nuovo. È l’ora di riiniziare la vita, è l’ora della quiete.
Ora per esempio devo fare una rapina organizzata in banca.
Sì, vivo così. Pretendo i beni altrui. Non è etico, ma a costo di non impazzire mi riduco così. La gente ha sempre detto che ero un poco di buono, che ero destinato a diventare così.
Tra qualche ora mi trovo qui con gli altri tipi. Sono arrivato molto in anticipo. Fondamentalmente perché odio arrivare in ritardo. Forse è la mia forte sensazione di ansia, ma io devo sempre arrivare sempre con qualche ora di anticipo rispetto gli altri.
Fumo un po’.
Aspetto. Osservo i palazzi. Sono molto alti. Analizzo la gente per strada. Camminano tutti di fretta e con le natiche strette. Accendo un’altra sigaretta. La fumo lentamente.
Aspetto. Conto i secondi. Sono molti. Mi perdo osservando il muro. È enormemente bianco.
Aspetto.
Ho fatto una vita ad aspettare “ancora un poco” che gli altri fossero pronti. Ho scoperto troppo tardi che è una scusa comune per dire che non si presenteranno mai.
Chiamo il Tizio.
-Aspettaci ancora un poco, non siamo ancora pronti.-
Cristo, ho capito, faccio da solo. Vado con decisione verso la porta. La spalanco.
Entro, e urlo.
QUESTA È UNA RAPINA!
Da piccolo adoravo guardare Lupin, e immaginavo ogni giorno di diventare un ladro famoso come lui. Non per i soldi, non per il denaro, non per la fama.
Per la genialità, per la sfida. Anche se ho sempre avuto una vita in riserva, le sfide di logica e creatività le ho sempre amate. Da piccolo risolvevo il cubo di Rubik più e più volte. Usavo il metodo Alessandro il magnifico. Lo rompevo e con superba tirannia lo ricomponevo giusto.
La soluzione più semplice è quella più giusta: una filosofia che ho sempre adottato con tutto.
I sudoku li ritagliavo e poi li rincollavo come volevo. I film o le opere artistiche troppo impegnate e enigmatiche per me avevano sempre un senso. Glielo inventavo.
Siccome molto spesso l’autore nel farle si era dimenticato di inserirglielo, io per non lasciarle vuote e insoddisfatte le accoglievo totalmente, dandogli un significato.
Sono a prova di Ermetismo.
L’addetto allo sportello bancario in un primo momento entra nel panico, poi si ricompone e mi guardava stranito.
-Ma lei al momento non ha una pistola, con cosa mi minaccia?-
È vero, la pistola ce l’ha Tizio. Doveva portarla lui.
Se non mi darete tutte la vostre scarpe, io inizierò a raccontarvi tutta la storia della mia vita. Vi conviene non scherzare perché sono dotato di storie tediose e scomode. Ricordi pericolosi che nessuno qui vuole ricordare.
Iniziamo.
Trenta anni fa. L’ospedale del centro. Erano le due di notte. E in tutto il mondo in quelle due misere ore erano nati tremila bambini (arrotondati per difetto). Era il mio turno. Mi armai di coraggio e iniziai a nascere. Prendere vita non è una cosa facile. Dopo un bel po’ di travaglio uscii. Dio, il medico che mi fece uscire era così brutto che piansi come non piansi mai per il resto della mia vita. Fu decisamente traumatico. Ero venuto al mondo.
Non ho mai avuto l’onore immenso di conoscere mio padre, era sempre assente, per darmi un futuro. Lavorava costantemente per me e mia madre. L’uomo migliore di cui io abbia mai sentito parlare. Mia madre era affetta da una malattia grave e passai molti momenti con lei una volta giunti a casa.
Vissi in montagna per sette anni. Avevo duecentoquarantatré amici, classificati in minerali, rocce vulcaniche e selci.
A cinque anni conobbi il mio migliore amico, era una selce bella grossa da 2,5 kg. Lui era più vecchio di me di molte migliaia di anni, ma la cosa non mi toccava minimamente. A lui invece pesava un poco. Non parlava mai, era molto timido.
Era un tipo un po’ pesante, ma alla fine stavo bene con lui, guardavamo spesso le nuvole sdraiati sui vasti prati verdi di montagna.
I miei non volevano che lo frequentassi, dicevano che era un tipo sporco e per questo non lo facevano entrare in casa. Io invece l’ho sempre ritenuto un ottimo esempio con dei solidi ideali.
Per sostituirlo alla fine mi comprarono un cane color nero. Era un cane molto particolare.
Aveva paura del buio e adorava saltare giù dai muretti. Stavamo ore intere a salire e scendere muretti. I divertimenti erano molti, alla fine ho avuto una bella infanzia.
-Ah sei tu! Ti ho riconosciuto. Dio abbia pietà di noi, prendi tutto, non farti più vedere. Non raccontarci niente. Non ricordare altro, per il nostro e tuo bene! Prendi quello che vuoi-
Datemi le scarpe.
Ora ho ventitré nuove paia di scarpe, di cui tre da ginnastica, una è bianca ed è anche un po’ sporca di rosso.
Esco e mi metto a correre. Scappo.
Devo vedere gente, fare cose.
-Chi deve vedere?-
Dei maiali
Quando faccio rapine sudo come un maiale.
Non ho mai capito effettivamente perché si dica sudare come un maiale. Io di maiali che sudano ne ho visti solo di tipo umano.
A tal proposito so di un uomo disgraziato che si innamorò di una scrofa. Diceva che era molto creativa a letto.
Personalmente non ci ho mai visto molto di creativo. Nel compenso era brava a grugnire, era proprio una gran bel pezzo di scrofa.
Tale esemplare raro di suino umano entrò nel tunnel della raccolta dei buoni per la spesa.
Ha coinvolto un intero quartiere. Sono un esercito di gente che raccoglie e cataloga buoni uno dietro l’altro. Non li usano, li mettono solo dentro un grande catalogo. Un gruppo di maiali che raccolgono spazzatura.
-Rappresentano la nostra cultura occidentale, un giorno saranno esposti in un museo–
Dio, il futuro quanto mi fa schifo, anche più del presente.
Io ogni tanto mi chiedo cosa penseranno i nostri nipoti di noi, cosa studieranno a scuola di quest’epoca. Aprite pagina cinquantasette del libro di Reality Show.
Siamo dinosauri.
Abbiamo creato civiltà, ci siamo evoluti, alzati in piedi, costruito macchine, tutto per niente. A livello biologico siamo un fallimento, hanno vinto gli insetti.
Essere intelligenti ci ha solo portati a comprendere la condizione fuori di testa dell’essere vivente, almeno l’animale non ci arriva. Soli in un angolo di universo, vivendo senza apparente motivo, su un pianeta annacquato e costantemente circondati da nostri simili che involvono e dimenticano tutti i passi in avanti fatti fino ad oggi.
Ci vorrebbe una pioggia. Ci vorrebbe un nuovo inizio.
Tra poco incontro la mia ex. La mia quarta ragazza. Era una ragazza particolare, la regina delle ossessioni più assurde. La trovavo a suo modo interessante.
L’ho conosciuta perché una delle sue manie è quella di parlare con gli sconosciuti. Eravamo sull’autobus numero ventitré.
Si girò verso di me e mi chiese:
-Vuoi una relazione?-
Affermativo colonnello. Era un periodo in cui ero estremamente solo e quindi accettai. Chiamatemi pure un drogato di relazioni sentimentali.
Ah, mi ero dimenticato, lei aveva anche la mania che dopo aver parlato poco più di tre secondi ad uno sconosciuto, non gli rivolgeva più alcuna parola per il resto della vita.
Feci in tempo a dire sì, che lei prese un taccuino e mi scrisse su un foglietto:
Ok.
io sono la tua quarta ragazza,
ti amo.
La sua non parola fu una benedizione, perché proprio grazie a questo motivo stemmo assieme diversi anni. Era facile sopportare lei e la sua enorme superficialità.
Con sorpresa incontrò un tipo logorroico, si innamorò di lui e mi lasciò. Ci rimasi comunque un po’ male.
Continua a piovere.
Corro, fino a quando le gambe non si consumano sfregandosi tra di loro. Mi domando spesso se c’è qualcosa che no va. Soprattutto ora.
A volte la gente mi guarda come se fossi un folle. Ricordo un gruppo di nazi alle medie che mi attaccò al muro e mi picchiò.
Avevo per sbaglio visto uno di loro baciare un uomo in bagno. Gli chiesi perché era un nazi. Mi rispose che lo era perché:
-Odio le checche di merda come te-
È spesso prerogativa umana quella di odiarsi (a volte giustamente) e se il mondo ci da una mano a farlo ci sotterriamo ancora di più, sempre di più, ancora di più e sempre più giù.
Ci allontaniamo dalla realtà delle cose e magari diventiamo l’esatto opposto di noi stessi modellando una persona che non siamo. So di alcuni che non lo fanno con se stessi, ma con quello che gli circonda. La loro psiche modifica quello che gli sta attorno per superare il carattere crudele dell’esistenza.
Sul mio libro di arte ho letto di un omino che era capace di fare le sculture più belle sulla faccia della terra.
Le plasmava da cima a fondo, dandole realisticità estrema. Aveva iniziato ispirandosi a quello che gli accadeva attorno, rappresentando scene di vita quotidiana. Poi, però, con il passare degli anni per lui quella che era la realtà diventava sempre di più alienante, distaccata, strana e disturbante.
Le sue statue erano più facili da accettare rispetto alla vita brutale e senza senso, priva di qualsivoglia bontà. Per lui gli umani diventavano sempre di più dei pezzi di marmo freddo, statico e fermo, mentre le statue diventavano sempre più plastiche, vive e passionali.
Tutto questo aumentò quando la donna che amò con tutto il suo cuore morì. Da quel momento perse completamente il senno.
La vita gli appariva come un misero sostantivo privo di fondamenti, indicativo di esseri spietati e senza cuore governati dal caos.
In preda alla follia si innamorò della statua di sua moglie che aveva modellato quando era ancora in vita.
So che ora vive in un paesino sperduto tra i monti. Lontano da ogni singola cosa. Lontano.
Questa storia mi fa venire in mente sempre un uomo. Fa la stessa cosa, ma con i ricordi.
Ha creato un teatro dove non può più soffrire.
Eccola lì. È in piedi e mi aspetta sotto l’ombrello. Muta come al solito. Se per caso iniziasse a grugnire non mi stupirei.
Mi fa un gesto con la testa.
Come sta nostro figlio?
Mio figlio. Il bambino più bello che io abbia mai visto, sebbene figlio della mia quarta ragazza e di un caso disperato come lo sono io.
Ricciolo, occhi verdi e capelli castani. Ha pochi anni, non so quanti esattamente. Ha una mania per le macchinine.
Posso vederlo solo il giovedì. Tutti i giochi hanno delle regole. Vorrei avesse un futuro roseo.
Spero non diventi la scrofa che è sua madre. Spero non diventi quello che sono diventato io.
Un fallito, un egocentrico, un pazzoide, un disoccupato, uno sbandato.
Ho perso troppe volte la fiducia. Spero ce la faccia.
Lo porto a casa con me.
Si stende per terra. La tv è accesa.
È sul tappeto. Piano piano il divano si tinge di rosso. Lui gioca con una macchinina. C’è un rumore fortissimo. Penso sia la tv che esplode.
Tutto rallenta e si cristallizza. Mio figlio indietreggia piano piano. È spaventato a morte. Io sono in piedi vicino alla porta.
Una volta avevo un cane. Saltavamo assieme su e giù dai muretti tutto il tempo. Aveva paura del buio. Io pure.
Assieme affrontavamo le tenebre e andavamo ovunque. Assieme affrontavamo il salto del muretto anche di notte.
Una volta, quando la luna era già sorta da tempo, saltai. Saltai male. Caddi a terra. Ricordo solo delle scarpe sporche di rosso.
È finito il tempo di ricordare. Devo andare via.
-Ci siamo quasi. Affronti la realtà!-
No.
Oggi impareremo un primo a base di pesce.
Prendete un ricordo del vostro protagonista, uno di lui che pesca in mare degli sgombri. Lo trovate in ogni subconscio ben fornito e se non c’è fateglielo sognare.
Non è un ricordo troppo esotico.
Ok, fatto? Dopo aver messo dell’acqua a bollire mettete tale reminiscenza all’interno di un involtino di foglie di banano di Papua Nuova Guinea. Tali foglie le troverete con più fatica, di solito sono disponibili nel reparto sogni avventurosi o incubi asiatici. Se non ci sono, inventateveli.
Ora dovete mettere il tutto a cuocere, mi raccomando: al vapore!
Prendere dei fichi banalmente reperibili e caramellateli in un tegame.
Il vapore della pentola con gli involtini mi ricorda la storia di un uomo che si era innamorato di una nuvola. La seguiva continuatamente, fino a quando non si dissolse in una pioggia. Entrò in forte depressione.
Era un uomo in fuga dalla realtà.
Quando sarà pronto dovrete impiattare il tutto. Mi raccomando l’ordine! Deve avere un impatto visivo.
Io dispongo di solito l’involtino aperto con sopra i fichi dolci, ma questo non è di nessuna utilità al gusto del ricordo.
Non va dimenticato assolutamente il condimento: sale e pepe, ovviamente a piacimento.
Un piccolo consiglio. I ricordi non vanno conditi troppo, dovete cercare solo di nascondere le parti che non piacciono a nessuno con altri sapori deliziosi. Non è appropriato ricordare un trauma mentre si assapora un gustoso piatto ricercato.
A volte se provo a ricordare certe cose mi sento come morire dentro. Secondo dopo secondo. Evitate dunque di preparare ricordi pericolosi per i vostri traumi.
Il segreto di un piatto di successo sta nel prendere ricordi freschi. Per riconoscerli, guardate sotto le branchie: devono essere ancora di un colore simile a quello della speranza.
Se non lo sono lasciate perdere, non fatevi intortare troppo facilmente dai venditori di realtà.
Te la gettano cruda.
Io ne so qualcosa: è una donna con un camice, spesso mi fa domande insolite. Cerca di riportarmi a terra.
-Basta. Ora, cosa ricorda della sua quinta ragazza?-
Io non ho mai avuto una quinta ragazza.
Io non ho mai avuto una quinta ragazza.
Io non ho mai avuto una quinta ragazza.
Io non ho mai avuto una quinta ragazza.
Io non ho mai avuto una quinta ragazza.
Io non ho mai avuto una quinta ragazza.
Io non ho mai avuto una quinta ragazza.
Io non ho mai avuto una quinta ragazza.
Ricordo delle scarpe da ginnastica bianche, un poco rosse.
Ricordo di due matrimoni che finirono.
Ricordo di un anello che cadeva.
Ricordo queste parole.
Soggetto. Disturbo.
Emotivo. Ricorda.
Ossessione. Scarpa.
Statue. Romantico.
Dottori. Paura.
Figlio. Divorzio.
Incidente. Personalità.
Inventare. Stasi.
Inventare. Finzione.
Rifrangersi.
Ho come delle luci davanti a me. Mi sento un po’ osservato.
-Concentrati-
Era un giorno d’estate. Io e la mia quarta ragazza ci dovevamo sposare. Lei era incinta.
Non avevamo un cazzo, ma, personalmente, avevo tutto quello che bastava a vivere.
Conosco uno che si imbuca spesso nei matrimoni. Più di ogni altra cosa gli piacciono le spose. Gli piace tentarle, cercarle di convincerle a non sposarsi. Se loro si fanno intortare lui le rapisce e se le porta via con sé.
Lo fa perché fondamentalmente gli piacerebbe sposarsi, ma non ne ha mai avuto il coraggio, quindi si trascina dietro tutta la gente che come lui non ha la reale forza di farlo.
Ovviamente non lo invitai.
Lui venne comunque.
So di avere molti difetti, come quello di pensare ad alta voce o quello di ripetermi, ma lui era un tipo logorroico molto tedioso e non riuscivo proprio a sopportarlo.
La quarta ragazza mi sposò lo stesso.
Sembrava che non gli avesse fatto caso.
Dopo solo tre ore dal matrimonio, durante il rinfresco, non la trovai più. La cercai ovunque, poi realizzai.
Scappò. Il tizio logorroico aveva vinto.
Non fu un grave colpo, alla fine non l’amavo sul serio, ma se l’avessi sposata molte cose sarebbero poi state diverse. Molto diverse.
Lei tornò da me solo per le pratiche del divorzio e per riprendersi le sue cose.
Mi lasciò solo un paio di scarpe da ginnastica che mi andavano giuste giuste.
Piansi come non ho pianto mai in vita mia.
Poi è un po’ tutto confuso.
Come tutto del resto.
Non capisco cosa succede.
Una volta, molto tempo fa nacqui, non mi è stata concessa una scelta, vorrei farla ora.
Ma oramai è troppo tardi scegliere se vivere o meno, ho delle responsabilità verso i miei ricordi.
A volte se muovi anche solo un sassolino potresti determinare l’esistenza di molte persone, direttamente o indirettamente, consapevolmente o inconsapevolmente.
-Abbiamo divagato troppo. La tua infanzia-
Da piccolo era preso in giro da tutti, perché tendevo ad attirare l’attenzione. Non avevo amici, né tra i sassi, né tra le scarpe nemmeno tra le persone. Mi sono inventato tutto.
Piansi come non ho pianto mai fino ad ora.
Poi non ricordo altro, giuro.
Non fatemi ricordare.
-La tua seconda ragazza-
Se un uomo fugge dalla realtà delle cose è perché non vuole seguire la logica sociale. Lasciatelo fuggire, avrà i suoi motivi se teme l’umanità e la vita stessa.
-Vai avanti-
Avevo una ragazza di colore una volta. Era etiope, elegante e intelligente.
Quella mattina avevo visto di nascosto un il nazi della scuola esser baciato da un professore.
Il pomeriggio, il bulletto, come suo solito, mi picchiò assieme ai suoi simpatici amici rasati.
Nella foga gli diedi dell’omosessuale (non usai proprio questo termine) represso e lui da quella volta per vendicarsi iniziò a tartassare la mia ragazza più pesantemente del solito. Minacce e insulti di ogni specie.
Lei non resse.
Un giorno si dipinse il corpo di bianco, con la tinta per muri. Arrivai tardi da lei. Morì. Si spense tra le mie braccia. Ho impresso ancora oggi il ricordo della vernice che sporca i miei abiti mentre la stringo.
Piango come non ho pianto mai fino ad ora.
-I tuoi genitori-
Non c’è altro dopo, ho detto tutto. Vuoi saperne ancora? No no, ora basta.
Scapperò con un inutile ricordo di quando pescavo salmoni in Norvegia. Non attacca.
-Non divagare-
No, questo ricordo no.
Ti prego.
-Ho detto, i tuoi genitori-
Mia madre morì quando ero piccolo, per colpa di una malattia.
Mio padre dovette lavorare una vita per potermi garantire un futuro.
Piango.
Non c’è altro, giuro.
-Dimmi, cosa sai sulla quinta ragazza-
Io non ho mai avuto una quinta ragazza.
Mi ricordo Céline.
Mi ricordo cosa dissero di me all’inizio i giornalisti. Dissero che ero un possibile sospetto. Che la cosa puzzava. Fu allora che decisi di crearmi tutto questo.
Fu allora che scappai dalla realtà.
L’Incubo di una notte di mezzo inverno
Céline, di famiglia francese. Il suo parto avvenne alle tre del pomeriggio. Il mondo aveva sfornato un mucchio di bambini quel giorno, compreso me, ma io ero più vecchio di dodici ore, tredici minuti ventitré secondi e undici primi.
Crebbe bene, in un bel posticino nel nord della Francia.
Conobbe un uomo arrabbiato con il mondo.
Fondamentalmente uno stronzo. Era il suo vicino di casa, del piano di sotto.
Un uomo che non sopportava nessun essere vivente sulla faccia dell’universo.
Era un vecchio scrittore in depressione. Si era isolato dal mondo, in uno sgabuzzino di appartamento, che aveva solo un letto e un frigo. Cercava inutilmente di scrivere una autobiografia, ma in passato aveva soltanto rovinato la vita a molte persone, c’era poca roba positiva da dire.
Fondamentalmente era uno ossessionato dalla guerra e da idee bacchettone. Era più vecchio di lei di quarantadue anni tredici ore ventitré minuti venticinque secondi e sette primi. Si incontrarono sulle scale.
Lei era troppo bella per non attrarre un vecchio schifoso e bavoso.
Lui aveva probabilmente venduto l’anima a Satana per ottenere le sue attenzioni.
Céline, sparì dalla faccia della terra, risucchiata dal vecchio, grinzoso buco di culo che era quel vecchio di merda.
Nessuno seppe più nulla di lei, i suoi genitori non la sentirono più, i suoi amici la videro sparire e i suoi contatti con il mondo furono tagliati.
L’ossessione e la possessione del vecchio uomo erano qualcosa di allucinante. Era maniaco e ossessivo.
La convinse anche a sposarlo.
Diogesùcristosantissimoimmacolatofigliodimariavergineconcezionebenedetta soltanto sapeva come ci riuscì.
Probabilmente Céline in quel periodo non aveva molta stima di sé e finì per essere assoggettata dalla forte personalità del vecchio bavoso.
Poi un meraviglioso giorno d’inverno lei passò vicino ad un cantiere. Stava tornando dalla spesa. Aveva comprato due carote, una lattuga, tre salsicce e un po’ di uova.
C’era un operaio con una fede al dito, era in pausa sigaretta. Il cantiere in quel periodo stava per chiudere e mandare tutti a casa. Era “la crisi degli immobili” dicevano gli esperti. Lui stava per finire in cassa-integrazione. In aggiunta la sua ex moglie, dopo solo tre ore dal matrimonio, l’aveva lasciato per un altro. Era un periodo terribile.
A lui cadde la fede proprio nel momento in cui gli passò davanti Céline.
Lei si fermò, la vide tintinnare per terra. La raccolse. Si alzò.
Venne verso di lui.
Era la Venere di Milo.
Era un film di Fellini.
Era un museo vuoto di persone.
Era un opera di Verdi.
Era un assolo dei polvo.
Era un concerto dei Velvet Underground.
Era sicuramente lei, lei, lei la donna più bella che quell’operaio avesse mai visto.
Era sicuramente diventata in quello stesso momento la sua persona preferita.
Era un motivo in più per vivere su questo buco di pianeta.
Lei lo sapeva.
Fondamentalmente perché non era una donna stupida e in aggiunta perché provava la stessa sensazione per lui.
Dopo essersi presentati in pochi secondi i due iniziarono a chiacchierare un po’ sul momento. Suonò la sirena del turno. Si diedero frettolosamente appuntamento la sera per due chicchere, niente di più, dicevano a sé stessi.
Con una scusa Céline riuscì a sviare la gelosia del marito e ad uscire per incontrare il disgraziato più fortunato su questa terra.
Passarono ore, ore e ancora ore a parlare. Politica, gioie, passati, fantasie giovanili. Poi tornarono alla realtà.
Lei iniziò proprio quella sera a pensare ad un divorzio. Pensare ad un futuro. Uno di quelli veri, che non fanno schifo.
La coppietta si incontrava spesso e coltivarono un’amicizia, un sentimento. Germogliò. Capirono di provare qualcosa.
Lei prese la decisione. Divorziò. Ottenne il suo vecchio appartamento. Bastava.
Vivevano entrambi nell’appartamento che lei non aveva venduto, quello giusto sopra al vecchio. Passarono due mesi
Venne Gennaio.
Guardavano la Tv.
Un programma di satira.
C’erano molte risate del pubblico.
Suona il campanello.
Non ricordo molto.
Céline apre la porta?
Lui rimane sul divano.
Colpo di sparo.
Lei cade.
Lui si alza dal divano.
Colpo di sparo.
Le scarpe da ginnastica sporche di rosso.
Non ricordo più nulla o non voglio sapere altro.
Però lei mi chiede cosa ricordo della mia quinta ragazza?
Io non ho mai avuto una quinta ragazza.
Io non ho nemmeno mai avuto Céline.
Io ricordo la donna che ho amato.
L’unica ragazza con cui potevo costruire qualcosa di decente. Ma come sempre il mondo è un posto schifoso per costruire sogni.
-Ma che giorno era quando Céline fu uccisa?-
Lei pensa che me lo sia dimenticato. Mi ha schifosamente fatto ricordare tutto. Lo so bene perché me lo domanda. E so dove vuole arrivare. Volevo avere la decenza di non dover ricordare tutto.
È difficile rammentare, il mio corpo e la mia mente si oppongono. Era un Giovedì.
Mio figlio. Anche lui, tra tutte le persone al mondo proprio lui. Lo so.
È morto vero?
-Lei cosa ricorda?-
Ricordo il suo corpicino sul tappeto.
Alla fine non rimane niente, no?
Rifugiarmi nella fantasia creare una nuova concezione di solitudine, reinventare la realtà. Ora comprendo perché ho deciso di farlo.
-I ricordi sono importanti. Le altre volte a questo punto si è arreso per poi tornare indietro, nel suo stato di psicosi. Si concentri. Le cose hanno diversi gradi di comprensione. Non si fermi all’apparenza, al ricordo fittizio che la sua mente vuole farle avere, vada più in profondità.-
Perché mi spinge a ricordare, è puro sadismo. Dottoressa, lei sinceramente, cosa farebbe se fosse in me? La verità è che lei scapperebbe. Come ogni altro essere umano. Si fa presto a gridare “è pazzo!”, ma la vera follia in questi casi è non essere folli. Se sei un codardo e non vuoi suicidarti l’unica alternativa è naufragare nei sogni.
-Deve riuscire ad affrontarsi. Non è finita. Abbiamo trovato soltanto il punto di rottura. Adesso che è cosciente del suo stato e che non è più sommerso da un miasma di ricordi è il momento di approfondire l’argomento. L’ho riportata ad uno stato di coscienza, facendole affrontare i suoi traumi del passato per poterle far vedere la verità su quel fatidico giorno.-
Non c’è più nulla della realtà che mi appartenga ancora, mi dispiace. È ora per me di tornare a plasmare i sogni che più mi aggradano e non mi facciano soffrire.
-Aspetti. Almeno risponda a questo. Quattro spari. Lei come sopravvisse? Cos’è successo? Di chi è il sangue sulle scarpe? Chi ha aperto la porta? Suo figlio è realmente morto?-
Io.
Io non lo so.
-Esattamente quando ha deciso di costruirsi un suo mondo?-
Queste, sono domande a cui non ho risposta…
Sono confuso.
-Affronti se stesso. Faccia un lungo respiro. Le viene in mente niente…
…ricorda?-
La testa di Orfeo
Era giovedì.
Suonò il campanello. Io e Céline eravamo accoccolati sul divano. Mio figlio stava giocando con una macchinina sul pavimento. Lei mi guardò stanca morta e mi disse
–Amore, vai tu?-
Non andò lei ad aprire. Andai io.
Senza dire nulla e un po’ sbuffando mi alzai. Era un periodo di crisi, ero stato licenziato ed ero in cassa integrazione da un po’ di tempo. La notte facevo piccoli lavoretti in nero per rimediare un po’ di soldi. Lo stesso Céline.
Un passo dietro l’altro mi trascinai alla porta, dove mi buttai sulla maniglia direttamente, senza neanche vedere dallo spioncino.
Piano piano mentre la porta si apriva, appariva il vecchio di merda.
Era ancora sulla soglia. Guardandomi come fossi la feccia dell’universo intero.
Tirò fuori la pistola da dietro la schiena, la puntò contro mio figlio. Con quel poco di forza che avevo, la spinsi verso l’alto. Non in tempo. Un colpo partì verso il divano.
Verso Céline.
C’erano ancora dei colpi nel caricatore, quindi eravamo ancora li a combatterci. Cercavo di toglierli l’arma dalle mani. Ovviamente lui opponeva resistenza e cercava di prendere la mira per sparare a me o a mio figlio.
Parte un colpo.
Verso il televisore.
Un rumore fortissimo
Mio figlio era sul tappeto, si trascina lontano dal combattimento guardando per intero la scena con aria terrorizzata.
Parte un altro colpo.
La mia spalla destra.
Il rosso, il sangue sulle scarpe. Era mio.
Combattiamo ancora. Parte l’ultimo colpo. La sua testa mi esplode davanti agli occhi. Un mucchio di merda vecchia finisce su tutti i muri delle tromba delle scale e in faccia a me. L’adrenalina svanisce e per il dolore allucinante, svengo. Sento echi lontani, sento piangere, urla, gente, sirene, ambulanze, polizia.
Mi risvegliai due giorni dopo.
Mi informano di tutto.
Mio figlio è da sua madre, la mia quarta ragazza.
Muoio dentro.
Giornalisti ovunque.
È la storia del secolo, dicono alcuni.
Muoio dentro.
In quel momento di infinito dolore mi dimenticai di mio figlio. Avevo ancora un legame con lui ma si era trasformato con gli anni in un legame di dovere in quanto padre non era un vero e proprio legame affettivo. L’unico ponte che avevo ancora con la realtà crollò con la morte di Céline. Non avevo più niente. Solo un mucchio traumi che segarono definitivamente la mia sanità mentale. Céline fu la goccia che fece traboccare il vaso.
Decisi di fuggire via nella mia testa. Ora però devo tornare. Cristo, devo farlo per lui. Ho un bambino. Ho un dovere. Sono stato un incosciente a crearmi tutto questo teatrino di marionette e di fantocci. È pur sempre un bambino innocente e non merita di fare la mia stessa fine.
Dottoressa. Mi risvegli la prego. Ho capito.
-Sappi che questa sarà la parte più difficile. Il risveglio è spesso traumatico. Lei ora deve concentrarsi sui ricordi reali e ascoltare bene la mia voce. Conterò fino a tre, poi voglio che lei apra gli occhi e torni alla realtà. Iniziamo-
-1-
Uno.
“Il luogo più intimo che io conosca, il luogo in cui sono stato troppo a lungo, in cui la mia mente malata ha costruito il suo teatro di illusioni. Il luogo che ora si rivela per la sua vera natura.
Questo posto infatti è quello che col tempo sono diventato. Un arido deserto di demenza. In definitiva la follia non è che una gigantesca landa arida che continua a mutare allo scopo di far perdere completamente il senno. La ripetitività del paesaggio, la sua mutabilità e la pochezza di risorse necessarie alla sopravvivenza necessaria per ogni individuo? Il luogo più simbolico e rappresentativo della pazzia, perfetto per far perdere la sanità mentale a chiunque. Con me ci è riuscito perfettamente, ma la realtà è che ognuno di noi ha una qualche sorta di labirinto dentro, nascosto da qualche parte. Un posto composto da passati traumatici, vecchi ricordi e sogni infranti tutti addensati e che se nutrito troppo a lungo potrebbe inghiottire completamente la coscienza di chiunque.
Ora è giunto il momento per me di affrontare la mia parte malata.
Non c’è nessun altro qui: siamo solo io e la mia mente, in questi pochi ultimi attimi salienti in cui si deciderà chi ha avuto la meglio su chi.
Io contro me.
Lo stato di coscienza umana contro l’immensa, deviata e reale mostruosità che gli appartiene. Il piccolo titano contro la presenza vile dell’onnipotente divinità Es.
Ora come ora è tutto completamente avvolto dall’oscurità e la sento come fosse una materia viva, quasi che oltre a circondarmi mi stringesse e esercitasse una lieve forza su di me. Il miglior modo per descriverla è come una fitta coltre nera.
Ogni tanto scendono dall’alto dei fasci di luce che scandagliano qui e là l’ambiente desertico. Sono una pessima fonte di luce in quanto illuminano raramente quello che ho attorno e se per caso lo fanno quando lo fanno mi rimangono affianco per poco tempo.
Concentrazione. Devo uscire di qui prima che mi ci perda di nuovo. Come ho già fatto in passato.
Corro. Non so dove, non so come, ma so solo di correre. Più rimango fermo e più rimango in questo luogo. Non voglio.
Supero una sinuosa duna, quando qualcosa in alto, sopra di me attira la mia attenzione. È un ombra. È abbastanza grande. Credo mi stia precipitando contro. Velocemente. Mi fermo ad osservarla. Con l’oscurità che domina la mia vista non capisco di cosa si tratti. Passa un lampo di luce. La illumina di sfuggita.
Dio, è una macchinina rossa che sta cadendo dal cielo.
Mi sta precipitando addosso.
Sono immobilizzato.
È a pochi metri ed è veloce. Arriva.
Agisco.
La scanso per un pelo.
L’oggetto si pianta nella sabbia.
Sono sicuro di averla già vista. È una vecchia Citroen due cavalli. Credo che sia un ricordo d’infanzia, risale ad un incidente in macchina di quando avevo tre anni. Non è l’unico ricordo che mi piomba dal nulla. Sta iniziando a piovere di tutto, cose che nella mia vita ho già visto in passato, cose che ho già vissuto. È uno spettacolo di puro caos. Il mio caos.
Il tavolo sotto il quale passavo molto tempo da piccolo mentre giocavo con le costruzioni. Precipita, come un seme da un albero, a terra.
Delle bottiglie di vino che ho bevuto da ragazzo e che impilavo come trofei in camera mia. Sono bombe che si scontrano con il sabbioso terreno. La sabbia al contatto si solleva simulando una piccola esplosione.
Carcasse di vecchi e polverosi apparecchi tecnologici i quali ho usurato durante la mia vita. Cadono.
Cade tutto. Cade ogni mia cosa. E per dio, mi cade tutto addosso. Riesco a evitare quasi tutto o per lo meno evito di rimanerci secco.
Il deserto piano piano si sta trasformando sempre di più in una discarica di vecchia roba abbandonata.
La pioggia delle mie memorie però non è l’unica apparentemente e pericolosa manifestazione che ho del mio passato. Correndo appaiono echi di ricordi vivi o reinterpretati in maniera sinistra dalla mia mente.
Vedo una fede apparirmi davanti agli occhi. Inizia a tintinnare su un marciapiede emerso dalla sabbia. Non ci casco, è un trucco. Non rimango qui a ricordare mentre vengo schiacciato da qualcosa che mi piove contro. Non devo farmi distrarre.
Continuo a correre e a schivare il mio vissuto.
Ah.
Sono inciampato.
Sono finito contro, contro, oddio, contro quello che mi sembra un secchio di vernice da muro.
È color bianco.
Ho come una sensazione di orrore che mi pervade. Mi sta venendo il flash della ragazzina che avevo da piccolo.
Resisto. Devo resistere. Resisto.
Rimango dove sono senza fuggire nel mio passato.
Presente. Sono nella mia mente. Un deserto. Sono inciampato. Sono ancora a terra.
Mi appare davanti al muso un ragazzino pelato che si sta scrocchiando le mani con fare minaccioso. Mi alzo e riprendo a scappare. È il nazi che mi tartassava alle medie. Mi da qualche attimo di vantaggio, mi ricordo che lo faceva sempre. La violenza è come fosse solo un gioco per alcune persone.
Fuggendo sento in distanza una sirena. È identica a quella del cantiere in cui lavoravo dove ho conosciuto Céline. Resisto, non devo cedere al mio passato. Non ora. Continuo sempre a correre. Mi giro per controllare se c’è ancora il nazi. Non c’è più nessuno, forse l’ho seminato o è semplicemente svanito, forse non mi ha neanche inseguito.
Dio, mi sembra di essere pazzo.
La spazzatura non smette di scendere dal cielo e si stanno accumulando vere e proprie pile e torri di oggetti. Alcune crollano visto le altezze vertiginose e il peso della roba che si ammucchia. Si sentono in lontananza i rumori di frane composte da vecchie bici. Ogni tanto queste montagne vengono illuminate e se non fosse che potrebbero sotterrarmi da un momento all’altro ne rimarrei sempre meravigliato: quante miriadi di cose inutili hanno composto la persona che sono.
Corro ancora e improvvisamente arrivo.
È una valle che non è stata ricoperta dalla spazzatura. Non c’è neanche deserto. È solo vuota. Il nulla.
Dentro di me so che dovevo arrivare qui.
Ha smesso di piovere ricordi.
I raggi luminosi che vagavano nel nulla piano a piano si riuniscono e formano un cilindro di luce che illumina una porta al centro di questa oasi di niente.
Non ci sono muri, la porta è li che si erge in piedi appoggiandosi solo a sé stessa. Attende me.
Mi dirigo verso di lei.”
-2-
Due.
“La apro. Appare una stanza.
Entro.
È tutto così strano.
Vedo uno sculture, crea ricordi fasulli ispirandosi alla realtà.
Nella stanza c’è un’altra porta. L’attraverso.
Sono nel ricordo di un sogno. Non devo rimanere qui troppo a lungo. Una porta. L’attraverso.
Un ricordo di quando ero piccolo. Ancora una porta.
Piano piano, porta dopo porta dopo porta, diventa sempre tutto meno fisico, è sempre più etereo. Non sono più dentro luogo ben definito, ma sto penetrando al centro di me stesso. Un posto pieno di ripetizioni, pieno di contraddizioni.
Un’altra porta.
Qui in queste stanze senza muri, tutto urla il mio nome. Sono un po’ disorientato.
Vedo una ragazzina. È schizofrenica. Ha due personalità. Una è la realtà, l’altra è la finzione: l’amante e la moglie. Porta.
Vedo una ragazza di ventitré anni che odiava avere contatti con le persone. Non riusciva ad ammetterlo, ne era così talmente ossessionata, da dover stare sempre estremamente vicino a qualcuno. Porta. Un matrimonio a pezzi. Vedo lo sposo, la sposa non c’è. È scappata.
Basta. Apro l’ultima porta.
C’è Cèline. Ho un colpo al cuore.
Mi viene in contro dolcemente.
Sono paralizzato. Gli occhi sono immobili su quella figura, che sebbene sia certamente irreale mi pare così vera.
Non è la realtà? Vero?
-Amore mio, sono morta lo sai?-
Lo so.
Ho una morsa allo stomaco che mi stringe e mi tortura dentro. Lo sapevo che prima o poi avrei dovuto far fronte anche a questa parte di me.
Qualche lacrima mi scende dagli occhi.
Siamo uno difronte all’altro, avvolti dal buio mentre un fascio di luce ci illumina dall’altro.
Il silenzio sottolinea le nostre voci.
Chi sei?
-Io sono un tuo fantoccio, nient’altro che un ricordo animato dalla tua mente, ma potrei essere anche la tua amata se solo tu lo volessi. Potresti rivivermi. Potresti amarmi di nuovo. Potresti sognarmi fino alla fine dei tempi, devi solo arrenderti.-
Al solo sentire tutto questo mi viene a meno ogni buon proposito che avevo. Non ci riesco. Perché sto uscendo? Se non lo faccio per me stesso, se non lo faccio per niente che mi riguardi, perché dovrei sforzarmi ad uscire di qui.
Dove sono?
-Lo sai meglio di me. Sei tra il secondo e il terzo secondo prima del risveglio. Stai finendo il sogno, oppure stai per farne un altro. Tutto spetta a te. Devi decidere se vuoi vivere con me o con la verità dei fatti: non sono che un cadavere.-
Mi inginocchio davanti a lei, la guardo. È per forza lei. Ogni suo più piccolo dettaglio è identico all’originale. I capelli color rame, gli occhi azzurri e profondi e le labbra color rosa.
Cosa dovrei fare? Non capisco più nulla.
Dimmi cos’ho.
-Hai solo un dovere. Sei un padre. Tuo figlio, anche se non lo senti tuo, merita di diventare così? Se tu non torni alimenterai solo i suoi incubi. Alimenterai il suo labirinto. Io sono solo una porzione del tuo passato a cui ti sei aggrappato.-
Ora.
Forse comprendo. Tu sei una parte di me su cui si è infranta l’immagine di colei che amavo.
Un ricordo.
Vedo i fili tesi sopra la sua figura. Un burattino animato magistralmente per dirmi quello che devo accettare.
Ora finalmente mi alzo.
La marionetta alza il braccio per indicarmi una porta d’acciaio di cui non mi ero accorto prima.
-Svegliati. Non tornare mai più in questo teatro. Non vivere nel passato, piuttosto vivi per ricordare. Lo sai meglio di me, lo sai meglio di te stesso.-
Apro l’ultima pesante porta. Pesa quanto un macigno. Pesa quanto un trauma. Quanto un dolore allo stomaco. Quanto il pensiero di dover accettare la realtà.
Quanto un risveglio.
La spalanco.”
-3-
tre.
risveglio
[ri-sve-glio]
s.m. (pl. -gli)
1 Tornare alla realtà: il protagonista adesso torna a casa, dopo il lungo e traumatico r. ;
- Sa che giorno è oggi?- Ha appena smesso di piovere. -Oggi mio caro, è giovedì- Giovedì. Un nuovo inizio. -C’è un bambino, il suo bambino che l’aspetta- Un momento di silenzio. -Dottoressa, non sto ancora sognando, vero?-
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