ESPERIMENTI LETTERARI Le parole che non ho detto

Le parole che non ho detto – Andante con rabbia

Scritto da Eulalia

Le parole che non ho detto – Andante con rabbia

I VECCHI

 

La prima cosa con cui qualsiasi studente di Medicina impara a convivere il più possibile pacificamente sono i vecchi, che poi costituiranno il 90% della popolazione con cui avrà a che fare. I vecchi sono creature essenzialmente malvagie, che popolano i tram diretti all’ospedale e i corridoi dello stesso senza apparente motivo se non quello di rompere il cazzo, attaccare bottone e, se ne hanno la possibilità, bestemmiarti i parenti.

Quando ero uno studentello al primo anno, pieno di buone intenzioni e amore per il prossimo, i vecchi li facevo pure sedere sull’autobus, sorridendo pieno di complimenti. Ho smesso gradualmente: prima di tutto mi sono reso conto che la maggior parte di loro ti guarda male sia quando stai seduto -perché non lasci il posto ai più anziani- che quando poi ti alzi -perché gliel’hai lasciato e non pensavano di sembrare tanto malandati. Questa constatazione mi ha portato ad una fase selettiva: facevo sedere solo i vecchi che mi stavano simpatici, o a seconda di quanto assomigliavano ai nonni che avrei voluto avere, o se mi pareva ad occhio e croce che sarebbero scesi alla stazione – dieci fermate prima dell’ospedale – lasciandomi di nuovo il posto.

Quando io e Marta ci siamo lasciati era un gelido inverno e io non avevo più voglia di alzarmi dal letto, così i pensionati hanno vissuto un paio di settimane di tregua dalle mie attente selezioni, mentre quando ho deciso di rimettere piede all’università l’idea che avevo, più o meno, era che avrebbero dovuto essere loro a far sedere me. C’erano alcuni vecchi nel tram che avevo imparato a conoscere bene, osservandoli mattina dopo mattina, e mi pareva normale che loro avessero attentamente osservato me: ero dimagrito, con più occhiaie che occhi, spettinato e incazzato, mi sembrava un dovere cedermi il posto. Ma niente, anche i miei preferiti, perfino i miei inconsapevoli nonni d’adozione, mi hanno tradito.

Da allora io coi vecchi ho chiuso e, soprattutto, dopo sei anni di grigi viaggi in tram di mattina, pur di avere il posto a sedere sono pronto ad asfaltare donne, anziani e bambini. Entro dalle porte automatiche come un bulldozer, e da lì al mio posto a sedere nessuno mi ferma.

 

Altra caratteristica peculiare dei vecchi, il cui habitat naturale è rappresentato, oltre che dagli ospedali, da poste, uffici pubblici e ambulatori in generale, è l’odore di minestrina e morte che emanano e la placida tranquillità con la quale camminano lungo i trecento metri di cemento che separano la fermata dell’autobus dall’ospedale, generalmente in coppia, con o senza bastone, e con parole gentili –vai via, insetto– per gli zingari che chiedono l’elemosina a fianco. Così lo studente di medicina impara subito quello che nel corso dei sei anni successivi sarà il suo sport principale: dribbla il vecchio, per tutte le età, da provare anche in famiglia.

I vecchi poi te li trovi anche nei letti d’ospedale quando inizi a frequentare i reparti, anzi direi che ti ci trovi quasi soltanto loro. Il mio primo tirocinio fu in un reparto di chirurgia oncologica.

Oggi ho imparato a riconoscere subito i vecchi scoreggioni, quelli che palpano il culo alle infermiere, le vecchie che si lamentano solo quando il medico è nella stanza e per il resto stanno come pasque, ma quel giorno avevo indossato per la prima volta il camice e pensavo d’essere più spaventato di uno qualunque dei pazienti della corsia; pensavo anche di non poter essere più terrorizzato di così quando presi in mano lo sfigmomanometro e misurai ad una vecchia in shock una pressione massima di 180. Sentivo solo il mio cuore battere dalle olivette dello stetoscopio.

Capii che mi sbagliavo quando, dopo un paio d’ore passate in mezzo ai letti, ero così saturo dello sguardo di fiducia e remissione che quelle persone riservavano a chiunque indossasse un camice da non poterne più. Il loro dolore mi sommergeva e mi chiesi, nell’ordine, guardando il mio tutor: come si fa a convivere con questa responsabilità sulle spalle? e poi come farà quest’uomo stanotte a dormire?

I vecchi, al bar, prendono una brioche alla nutella con il cappuccino e poi vanno dal medico a lamentarsi perché non ci vedono più per il diabete. I vecchi, a pranzo a mensa, li riconosci perché sul vassoio hanno sempre una bottiglia di vino. Se ti perdi cercando qualche reparto dell’ospedale non devi chiedere indicazioni a un medico, le devi chiedere a un vecchio. Una volta sono arrivato a mettermi in coda per fare le analisi un’ora prima dell’apertura del centro prelievi e c’erano già venti vecchi in fila. Ti odieranno, ti disprezzeranno, ma dopo la laurea, come amanti piene di nostalgia, torneranno sempre da te. E se sei uno studente medio, con i cazzi medi degli studenti, la maggior parte di loro sarà sempre e comunque molto più in forma di te.

 

 

 

PERIFERIA VIOLENTA

 

Il motivo per cui, ora che sono qui a casa, faccio un sacco di passeggiate è essenzialmente che voglio evitare di affrontare coi miei uno scottante dialogo riguardo la mia laurea. So che si muovono con delicatezza nel farmi le domande, specialmente mia madre che ha gli occhi buoni, ma so che con altrettanta fermezza vogliono da me delle risposte che non ho. Cosa devo dire? Che passo la maggior parte delle mie giornate a guardare serie tv, a leggere libri che non sono nel programma, che non riesco più neppure a scrivere, figuriamoci a studiare?

Ogni tanto qualcuno mi chiede: com’è possibile che Marta abbia tanto potere su di te? Io scrollo le spalle e rispondo che non lo so.

Camminando osservo senza grande trasporto questo mio paese natale, sepolti i sentimenti di astio e di repulsione che riusciva ancora a suscitarmi tempo fa. Solo chi è cresciuto in un buco che conta sì o no settemila abitanti, dove tutti ti conoscono – e il fatto che ti conoscano significa che solo sapendo il tuo cognome riescono con una scioccante sicurezza a snocciolare tutta una serie di fatti riguardanti i tuoi genitori e predecessori per almeno tre generazioni – sa cosa significa crescere in un paesino. Un posto dove succedono poche cose, e, proprio per questo, ogni cosa che succede è importante: perciò se quando avevi undici anni eri il più bravo della classe sarai per sempre un secchione, o, nella migliore delle ipotesi, sarai chiamato sarcasticamente il professore, per tutta la vita. Dove se hai avuto l’ardire di avere due o tre ragazzi, ma di non darla a quello sbagliato sarai una troia per sempre, e non c’è nulla che tu possa farci. Un paesino è un luogo fatto di gente annoiata e arrabbiata, un microcosmo da cui sei dentro o fuori senza vie di mezzo, con persone umili, buone di una bontà ignorante e cattive di quella crudeltà meschina che appartiene a coloro che non vogliono far troppa fatica a pensare.

È questo che crescere in un posto simile ti lascia dentro: lo straordinario talento di individuare le debolezze altrui e farne un marchio.

Guardo tutto e penso che è proprio da qui che provengo, proprio ora che sono così confuso perfino su dove mi trovo: le strade con le toppe d’asfalto, i giardinetti recintati, le case di cemento grigio e lontano la ciminiera della distilleria, che sputa continuamente in cielo un fiume di fumo bianco; il centro storico, cento passi nel suo diametro maggiore, è lontano e coronato da torri smozzicate retaggio di un medioevo che sembra quasi non essere mai esistito, o mai finito. Le colline sono lontane da qui, dove c’è solo pianura e un’infinita distesa di campi coltivati, e fossi, e piccoli bar squallidi lungo la strada che porta alla stazione.

L’espressione “vita di provincia” non ha mai significato molto per me, fino a poco tempo fa. Al liceo, come ogni adolescente, tuonavo contro tutto ciò che per me allora rappresentava: la noia, il non succeder niente, l’assenza di ribellione, di lotta giovanile o anche solo di un concerto ogni tanto, ma me ne sono poi allontanato in punta di piedi, senza avere né il fegato né un grosso desiderio di fare come tanti miei compagni che sono fuggiti a studiare in grandi città di qualche milione di abitanti. Il pensiero di una tale mole di gente mi soffocava, ed è ancora così.

Solo col tempo, nonostante vivessi ormai fuori da anni, mi sono reso conto che la vita di provincia è un modo di pensare, un modo di essere, e non un luogo dove vivere: a Siena continuavo la mia vita di provincia, come tanti altri miei amici facevano a Roma o nel centro di Milano. Così come potrei raccontare i viaggi fatti in autobus con gli amici per andare al cinema, puntualmente sbronzi, i pomeriggi interi passati a giocare a carte, e, dopo l’arrivo della patente, le interminabili traversate della Valdichiana per raggiungere un posto dove ci si annoiasse un po’ di meno, le scopate in macchina via via sempre meno interessanti… potrei descrivere ogni mio giorno da studente universitario. L’interesse così facilmente acceso e così rapidamente perso in ogni cosa, il bisogno di fare una stronzata più grossa ogni volta per poter superare quella prima, la tolleranza che dà combattere la noia ogni giorno e ritrovarsi sconfitti col telecomando in mano.

La vita di provincia è una vita di seconde volte.

 

Forse per questo, io, vero tossico del dramma e drogato di terremoti emotivi, inorridivo quando, parlando con Marta, intuivo la sua cristallina volontà di non andarsene dal paese dov’era nata, poco lontano dal mio. La routine di ogni giorno, gli amici che collezionava dalla scuola materna, quasi tutti vicini di casa, e il panorama desolante di quella manciata di case di operai le piacevano. In un modo che ho mai saputo comprendere la rasserenavano al punto di non farle sentire il bisogno di andarsene. Sì, viaggiare le sarebbe piaciuto, ma viaggiare significa anche ritornare. Lei era felice in quel posto dove altri si annoiavano al punto da bruciare i loro stipendi in eroina, e al pub salutava con disinvoltura quarantenni dal trucco pesante e dalle unghie dipinte di nero che fumavano lunghe sigarette e discutevano di programmi televisivi parlando con il nostro stesso orribile accento.

Adesso che non la vedo da quasi due anni – sì, forse ci ho messo più impegno di quel che credevo nell’evitarla – e passo il tempo a immaginare con lei incontri tendenzialmente improbabili, ogni tanto mi chiedo anche davvero, realisticamente, cosa faccia. Mi piace dirmi che ha finalmente deciso di smettere di fare la pendolare e trasferirsi a studiare in qualche città lontana da questa brutta e grigia provincia, ma so bene che non è la verità: lo penso soltanto perché, per l’ennesima volta, voglio fare di lei qualcosa che non è mai stata.

Mi accendo una sigaretta perché sono arrivato nel punto in cui, da sempre, fumo di nascosto. Dietro questo malconcio palazzetto dello sport ho preso un tiro dalla mia prima tossica Diana azzurra, tossendo come un dannato e sbirciando quelli che, nei giardinetti poco più in là, fumavano tutti insieme.

Aspirando mi viene da ridere pensando, per la prima volta, a quante cazzate ho detto a tutti in due anni. Com’è possibile che Marta abbia tanto potere su di te?

L’unica risposta è: no amico, non ce l’ha. Non è stata certo Marta, che con grande classe non mi chiama dall’ultima volta che ci siamo visti, a impedirmi di dare gli esami, e non è stato il mio folle amore per lei a far sì che non m’innamorassi più di nessun altro. Perfino la nostra storia, forse, non era questo granché.

Potremmo dire da qui in avanti che Marta è stata finora la mia migliore scusa: l’opportunità per cadere finalmente a pezzi, e poter ammettere davanti a tutti che io non so cosa voglio, che non sono in grado di rispettare le loro aspettative su di me, che non sono uno studente modello, un ragazzo modello, che probabilmente non sono niente di quello che nessuno ha mai pensato.

Ho voluto gridarlo a tutti: sono un fallito. E che grande gioia, che liberazione questa parola. Io, sì mamma, proprio io, io studente brillante e futuro medico, io che non fumo, non bevo, non mi drogo, io che ho sempre avuto come amici dei bravi ragazzi e che sono arrivato a ventiquattro anni senza mai perdere un colpo, sono un gran cazzo di fallito, e ho pure il diritto di esserlo perché, tanto per iniziare, ho mandato a puttane l’amore della mia vita.

E infine, no, ragazza tanto carina, so che ieri sera ti ho detto che avevi una bella risata, ma non posso impegnarmi con te. Figuriamoci, ahah, il problema non è che ho paura di restarci sotto e poi magari sentirmi di nuovo soffocare e non avere il coraggio di salvarmi, no, il problema è che esco da una storia difficile. Già.

Io non so chi sono. Io non sono chi diavolo voglio essere. E mia cara Marta, tutte queste cose, in questi due anni, te le ho raccontate in ogni lettera, in ogni messaggio non spedito, in ogni pagina di diario, perché era troppo difficile raccontarle a me.

È così che per la prima volta decido di non soffocarmi con tutte le parole che non ho detto, e prendo il cellulare. Digito il numero che so a memoria – l’ho anche ripassato una volta ogni tanto, per essere sicuro di ricordarlo – e le scrivo:

 

Ciao Marta, non ci sentiamo da un po’. Ti va di vederci?

 

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Clicca qua per il prossimo capitolo: Intermezzo.

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Foto di copertina dell’autrice.

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Eulalia

Sono una studentessa di Medicina a tempo pieno e una scrittrice a tempo perso, all’anagrafe ho ventidue anni. In realtà, credo di non averne compiuti ancora diciotto.

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