Chloe
Dio, stufo di quei due minchioni di Adamo ed Eva, strappò alla giovane donna una costola, lasciandola agonizzante in un bagno di sangue.
Fango, due spruzzate di acqua della pantalassa, una bella impanatura in sabbia rosa e poi cottura lenta a milioni di gradi in forno ventilato.
Rimase ad osservare l’impasto cuocere lentamente ed assumere una delicata sfumatura dorata, quindi, una volta che la cottura fu al punto giusto, estrasse il vassoio a mani nude (nei miliardi di anni in attesa che la terra si formasse aveva sviluppato notevoli capacità di sopportazione del dolore), e ne rovesciò il contenuto su un immenso campo di trifogli.
L’impasto, solido come pane e profumato come una torta di mele appena sfornata, cominciò a contorcersi ed allungarsi, fino ad assumere indistinguibili forme umane.
Sotto il cielo splendente e luminoso di una mattina come altre nel Paradiso Terreste, una figurina alzò la testa in un immenso campo di trifogli, aspirando grandi quantità d’aria per la prima volta nella sua vita.
Il rigoglioso ciuffo di peli tra le gambe non lasciava dubbi.
Era una donna.
Ed era nuda.
Completamente.
Dio la fissò dall’alto dei cieli e ne rimase scioccato.
Lunghi capelli castani le incorniciavano il viso, occhi color dell’ambra, labbra carnose e 32 denti bianchissimi aperti nel loro primo sorriso. I due incisivi superiori sporgevano leggermente in avanti, così come il naso, piccolo e simmetrico, la cui linea terminava in una delicata curva verso il cielo. I fianchi generosi sostenevano l’esile corpo, e le gambe si concludevano su due piedini minuscoli e simmetricamente identici.
Lo squillo delle trombe dei cherubini si alzò nei cieli, e persino Adamo abbandonò la compagna svenuta a terra per poter osservare più da vicino quell’essere meraviglioso. Una creatura tanto divina era un evento più unico che raro anche nel paradiso terrestre, e per l’emozione a Dio sfuggì un sonoro “PORCA EVA” che rimbombò a lungo sull’intero mondo conosciuto: al povero Adamo andò di traverso un pezzo di mela, i dinosauri si estinsero e la terra tremò di paura.
L’onnipotente, assuefatto a sì tanto bella visione, non si accorse della piccola crepa che la sua imprecazione aveva generato: partendo dal campo di trifogli, la spaccatura si propagava a zigzag lungo i confini dell’Eden e oltre, fin giù sulla terra a spaccar la Pangea e creare monti e fiumi, laghi e vulcani, mischiando come in un grande puzzle le terre con le acque.
Quindi, come il gorgo di un lavandino che a suon di gorgoglii finalmente si stura e cade nelle fogne più nere, così la figurina, sorridendo al suo creatore, venne inghiottita dalla crepa e sparì silenziosa nei recessi maligni della terra.
Dio, che ancora aveva negli occhi l’immagine della sua più bella creazione, si riscosse con un sussulto: stringendo disperato i capelli tra le mani, fissò il punto in cui quella meravigliosa creatura se n’era andata così com’era venuta, in un battito di ciglia.
“MERDA.
MERDAMERDAMERDA.
COSA DIAVOLO HO COMBINATO?”
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A Lucifero fischiavano le orecchie.
Non capitava spesso, visti i tempi di magra.
L’inferno era ancora un cantiere in fase di costruzione e solo pochi animali gironzolavano tra le fiamme in cerca di ossicini da rosicchiare.
Il piccolo Cerbero correva sulle sponde dello Stige, le tre teste che guaivano alla cenere che si posava sui tre nasi, e sulla sabbia nera e rovente era seduto il re del Male, che con un paio di occhiali di corno calati sul naso e i piedi infilati nelle gelide acque si arrovellava su calcoli e misure.
Infilò un dito nell’orecchia e grattò il timpano con le unghie nere, cercando di concentrarsi sul progetto per la costruzione di un decimo girone da riservare ai fan della pop music.
Una sensazione strana lo assillava da quella mattina.
Si stese sulla sabbia e fissò il soffitto, immerso in bui pensieri.
Proprio in quel momento, una crepa larga un piede squarciò la volta e una figura umana avvolta in una splendente luce bianca cadde dal cielo e infranse le acque dello Stige in una sinfonia di schiuma e spruzzi.
Lucifero, stupefatto, balzò in piedi.
Cerbero, dal canto suo, prese a latrare all’indirizzo del lago, ogni testa in modo diverso: l sinistra spaventata, la destra curiosa, quella di mezzo piuttosto confusa.
Dall’acqua affiorò una ragazza bellissima, come neanche il diavolo, che di sogni contorti e perversi ne faceva a suo piacimento, aveva mai visto. Trascinò lentamente il corpo nell’acqua melmosa e poco profonda, quindi lentamente emerse dai flutti.
Era nuda.
Completamente.
In quel momento, le fiamme dell’Ade sembrarono affievolirsi, quasi spegnersi. Caronte, che aveva fino a quel momento osservato la scena a bordo della sua zattera, cadde nel fiume e venne inghiottito dai flutti.
Satana sentì un brivido salirgli dalla coda rovente alla punta dei corni appuntiti.
La creatura meravigliosa si fermò ad un palmo dal Padrone degli Inferi.
“Buongiorno, Signore” esordì con voce flebile e lievemente infantile. “Sa dirmi dove mi trovo.”
Lo chiese così, senza punti di domanda, quasi che già conoscesse la risposta, come a mettere alla prova il Signore dell’Ade.
Egli, cosa incredibile, arrossì violentemente.
Non poteva fare a meno di fissare i seni morbidi e perfettamente rotondi che spiccavano come meloni maturi sul petto della ragazza. Più li guardava, più questi sembravano crescere.
Piccole gocce di sudore calano sugli occhi ed appannano la vista.
“…io…
… tu…
… come ti chiami?”
La ragazza non rispose, e chinando la testa di lato fissò il demone con sguardo incuriosito.
Quegli occhi avrebbero sciolto anche il David di Michelangelo, e Satana dovette aspirare ed espirare profondamente diverse volte prima di ricomporsi.
Quindi, asciugandosi il sudore dalla fronte, si rivolse alla ragazza con il tono più sicuro e sfacciato che gli fosse mai uscito di bocca.
“Sai chi son io? Che posto è mai questo, lontano da Dio?”
La ragazza scosse la testa. No, non lo sapeva.
“Non sai come ti chiami, non sai dove ti trovi… Come hai fatto a cader quaggiù, tra fiamme, serpi e rovi?”
La ragazza indicò con un dito lo squarcio nel soffitto.
Un vago sentore di erba filtrava dalla crepa, e un gigantesco volto barbuto osservava da lontano la scena.
“NON HAI ALCUN POTERE QUA, VECCHIO MIO!” urlò beffardo il diavolo a Dio.
Quindi sigillò la volta con un colpo di coda.
“Ti chiamerò Chloe. Che te ne pare? Non c’è nome più bello, per bellezze sì rare”
“Chloe?” domandò la ragazza, confusa dallo strano parlare del demonio.
“Significa erba tenera, piantina, germoglio. Non nascesti creatura dal più verde trifoglio?” Rise fragorosamente e le fiamme si levarono alte, quasi ad applaudire il loro demoniaco maestro.
Alla ragazza, quel nome piaceva. Lo ripeté a bassa voce qualche volta, assaporando il suono delle lettere che, come pietre di fiume che corrono e sbattono sul fondale, si incagliavano brevemente, prima di districarsi e procedere spedite verso l’orizzonte.
“Lascia che mi presenti: Satana, Lucifero, Belfagor o Belzebù… Puoi chiamarmi Lucio, padrone, scegli tu…”
“Padrone?” chiese stupita la giovane.
“Ti trovi all’inferno, dolcezza, mia cara. Qua ogni anima, ogni vespa, ogni rovo è mia creazione, anche l’aria. È in mano mia il destino dei dannati mortali, e la mia influenza concede privilegi immorali” concluse in rima.
Non era troppo simpatico, quel tipo cornuto.
Chloe, che era su questa terra da appena 15 minuti, già ne aveva abbastanza. Voleva indossare qualcosa, perché nonostante le fiamme dell’inferno scaldassero abbondantemente l’interno della grotta, quella nudità la metteva in soggezione.
Sapeva che difficilmente quel tipaccio l’avrebbe lasciata andare così, e cominciò a guardarsi intorno alla ricerca di una via di fuga. Una lunga scalinata, sulla sponda opposta del fiume, saliva ripida verso quella che senza alcun dubbio doveva essere l’uscita.
Là, una figura coperta da un mantello nero stava salendo i gradini a testa china. I lunghi capelli neri le cascavano fin oltre la schiena, e quasi in cima alla scalinata buia un uomo le dava le spalle, immobile. Un demonietto sostava sul primo scalino, e osservava che le regole venissero rispettate.
“Non ti curar di quei due innamorati, che più di una volta il mito ha fregati”.
Chloe, i giovani neuroni che correvano veloci sulle sinapsi, rifletté qualche minuto. Quindi si decise.
Avvicinandosi al demone, che aveva ripreso imperterrito a fissare i seni nudi della giovane, si alzò sulla punta dei piedini nudi e posò le labbra sulla fronte del demonio.
“Vuoi diventare mia sposa?” domandò a casaccio il diavolo, come ultima cosa.
Subito dopo, crollò addormentato sulle grasse chiappone.
Tuffandosi con grazia nel fiume, Chloe cominciò a nuotare velocemente verso la sponda opposta.
Quindi, dopo aver sedato il satanello di guardia con una dolce carezza, prese a salire le scale di corsa.
La donna col mantello era quasi arrivata all’uscita quando si sentì tirare le spalle. Scivolò all’indietro, ed ebbe giusto il tempo di scorgere per un’ultima volta la nuca del suo amato, prima di sparire per sempre nell’Ade.
Orfeo rimase interdetto quando, al posto dell’amata Euridice, gli si parò dinanzi quella meravigliosa creatura. Chloe, finalmente avvolta in un mantello, posò le labbra sulle gote dell’uomo prima che questi avesse tempo di chiedere spiegazioni.
E buonanotte ai suonatori.
Quindi, dopo aver scrutato un po’ la zona, si diresse a grandi passi verso un bosco di cipressi.
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“OH! ‘MBEH? SEI ANCORA SU QUESTA TERRA?”
Chloe mi fissa da dietro il suo McChicken unto e bisunto. Una goccia di maionese le si è posata sopra al labbro superiore, e i suoi enormi occhi ambrati mi scrutano sospettosi.
Allungo una mano e le pulisco la bocca.
“Ti stavo dicendo, se tu guardi la puntata fino alla fine, scopri che in realtà Demon non è cattivo, bensì la sua violenza è figlia di una congenita assuefazione al sangue umano che sua madre…”
Non riesco a concentrarmi su quello che dice. Non posso fare a meno di fissare quelle labbra rosa alzarsi ed abbassarsi, alzarsi ed abbassarsi.
Ho voglia di morderle, quelle labbra, baciarle il collo sinuoso, scendere lentamente sulle clavicole e assaporare il nettare della sua pelle. Mi sento il protagonista di “Profumo”. Posso percepire da qui l’odore della sua carne, anche sotto litri di Chanel e cipria.
“Non mi stai cagando.”
“Scusa piccola, è che pensavo…”
“Vabbè non importa. Andiamocene.” Si alza di botto, lasciando il panino a metà sul tavolo.
Ingurgito mezzo litro di CocaCola in 3 secondi e mi strozzo.
Infilo la giacca e la seguo verso l’uscita.
Qualcuno deve aver fatto il voodoo al colonnello Giuliacci, perché nonostante maggio sia arrivato da un pezzo, soffia un vento gelido e le temperature non superano i 10 gradi.
Chloe è appoggiata allo scivolo per i bambini, fuma una Camel Silver e cazzeggia con l’Iphone.
Mi avvicino e le passo un braccio attorno alle spalle.
Sorride, e il mio cuore salta un battito.
È bellissima.
Stivaletti lucidi ai piedi, leggins neri che mettono in risalto le forme morbide del fondoschiena, maglietta a righe bianconere e chiodo in finta pelle sulle spalle.
Porta due orecchini a forma di testa di gatto.
I capelli, con meches bionde sulla punta, sono legati in una lunga coda sulla nuca, e l’ombretto viola esalta il color ambrato dei grandi occhi.
Due tipi la fissano con insistenza.
Sembrano due vecchi detective in pensione.
Uno è avvolto in un lunghissimo cappotto marrone, un cappello di lana gli copre la testa e una buffa barbetta a punta fa capolino da sotto la sciarpa rossa. Fuma un sigaro aspirando senza piacere ad ogni boccata.
L’altro sembra avere 400 anni, e mi ricorda un po’ Albus Silente. Ha una barba grigia lunghissima così come i capelli, altrettanto lunghi, altrettanto argentati; folte sopracciglia color pepe, indossa una tunica a dir il vero un po’ leggerina col vento che tira. Sembra stanco. Le dita affusolate sorreggono la testa e ha l’espressione di chi nella vita ha fatto di tutto per non venire frainteso.
Entrambi fissano con insistenza la mia ragazza.
LA MIA RAGAZZA.
“Pezzi di merda”, mi ritrovo a pensare.
Mi stringo di più a lei.
Sento il calore che mi pervade il corpo, e le stampo un bavoso bacio sulla guancia.
Giusto per mettere in chiaro le cose con quei due.
Chloe sorride e trattiene un rutto.
Credo di amarla.
Ci incamminiamo verso la macchina.
Non ho idea di dove andremo, ma Chloe mi stringe la mano e mi sento un po’ meno inutile.
Mi volto a guardare i due tizi un’ultima volta. Rosso in faccia, il tipo con la barbetta nera e il lungo cappotto marrone mi fulmina sprezzante mostrandomi il dito medio. Scorgo sotto il lungo soprabito una coda appuntita. Scuoto la testa. Accanto a lui, il vecchietto con la barba e i capelli argentati osserva Chloe con lo sguardo di qualcuno che ha perso qualcosa per sempre, e manderebbe un figlio in croce pur di averla indietro.
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Figo.