Con il suo dodicesimo film Nanni Moretti si dedica ad una delicata e potente rappresentazione dell’ultimo periodo di vita della madre. L’impostazione utilizzata è la stessa che avevamo visto ne Il caimano: la vicenda principale procede parallelamente alla realizzazione di un film che, anche se in questo caso non assume rilevanza potante per la trama in sé, permette al regista di richiamarsi al senso di fondo dei suoi primi lavori, figli di un certa sinergia tra cinema e teatro, utile per sottolineare il carattere fittizio della materia e paradossalmente renderla più reale e vicina a sé. La protagonista (chiaramente alter ego del regista con cui condivide il lavoro), è gettata in un vortice di dubbi e incertezze che hanno come punto di raccordo la condizione instabile della madre, che si avvicina inesorabilmente alla morte e la comunicazione con questa diventa sempre più scarna e difficile. La consapevolezza della figlia si rafforza di questo, portandola alla comprensione del senso di ogni suo gesto e, di riflesso, sull’orlo dell’autodistruzione.
Proprio il rapporto con la madre sta al centro della narrazione, facendo lentamente trasparire i suoi effetti in tutte le vicende che attraversano le vite dei personaggi e prendendo la forma della perdita di un punto di riferimento, forse il principale per ognuno di noi. Moretti ha sempre infuso i suoi film con la sua esperienza personale, ma con Mia madre probabilmente si fa forte di un’attenzione psicologica ed emotiva quanto mai efficace nel suo cinema.
Allo spettatore rimangono evidentemente sensazioni molto forti e discordanti, il tema del rapporto con i genitori si espande passando attraverso la conciliazione vita/lavoro, il senso di perenne incertezza della vita, il profondo bisogno dell’altro, e infine pare inevitabile come la consapevolezza dell’ineludibilità della sorte sfoci in un finale che in fondo conosciamo già, anche se troppo spesso sembriamo dimenticarcene.
Tanto si potrebbe infine dire sull’atteggiamento al cinema stesso di Moretti, ultimamente criticato per un effettivo impoverimento, sul piano sia ideologico che espressivo, ma non vedo come, portando a conferma questo film, non gli si possa negare una spontaneità di espressione tale da giungere alla profonda efficacia della semplicità. Che sia in parte un male si può certo discutere, abbiamo bisogno di un cinema altro probabilmente, ma avere qualcuno che ci parli sinceramente è sempre una grande consolazione, la consolazione di un genitore che anche vicino alla fine è capace di ispirare il figlio.
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