RECENSOUND
È difficile rendere le musica con la parola scritta.
Questa è una rubrica che non ha la pretesa di essere un Vangelo in cui sono scritte delle verità assolute. Dico sempre: “Non c’è nulla di più soggettivo, irrazionale ed emotivo della musica”.
Non tratterò di tutti i generi, ma solo di quelli che mi vanno a genio irrompendo, di tanto in tanto, in contesti differenti.
Enjoy and rock ‘n’roll!
SONIC HIGHWAYS
Cosa hanno fatto i Foo?
Chiudete questa pagina web, mettete gli auricolari e ascoltate Sonic Highways.
Tutto.
Fino alla fine.
Bene, possiamo cominciare.
Le prime emozioni, togliendo le cuffie, sono appagamento e perplessità.
Appagamento perché pensi: “È stato un viaggio”. Un viaggio fatto di emozioni, che vanno dalla rabbia di The Feast and the Famine alla dolcezza di Subterranean. Un viaggio che ti riempie. Un viaggio in otto città diverse, in ognuna delle quali è stata registrata una canzone dell’album, costruito per essere un concept intorno al documentario Sound City a cui ha partecipato Grohl.
Perplessità perché pensi: “Mmh, ma ho davvero ascoltato i Foo?”.
Ma andiamo con ordine.
Something from Nothing (Chicago) parte con il buon Dave che accompagna la sua voce (migliorata rispetto ai primi album) con un arpeggio senza pretese. Dopo si aggiunge il resto della band, come da canoni standard dell’hard-rock. L’intrecciarsi perfetto di vari temi musicali (la dinamica nel passaggio tra essi è stupenda) ci porta al secondo minuto in cui salta all’orecchio, passatemi il termine, la presenza massiccia e preponderante della tastiera. Anzi, è proprio la protagonista del bridge! Qui nasce la prima perplessità: se già nella prima canzone le tastiere sono così in evidenza, cosa succederà nel seguito?
I puristi dei Foo cominciano già a storcere il naso.
Da qui la canzone diventa un crescendo fino al ritornello, se così si può chiamare, in puro vecchio stile Fighters: tipico intrecciarsi dei suoni delle tre chitarre con basso e batteria che vanno come dei treni, voce di Dave tiratissima, ma educata.
Che dire? Il finale è da brividi, ma la canzone lascia quel non so che di incompiutezza. Forse lo sbilanciamento tra la prima parte, più calma, e la seconda, che è da “spaccare le orecchie”? O forse quel bridge tastieristico un po’ inusuale? Non saprei, fatto sta che alla fine si rimane non completamente soddisfatti.
Voto: 7.5/10 AUDACI
Curiosità: Something from Nothing riprende il racconto di Buddy Guy sulla povertà dei suoi esordi: “A button on a string, and I heard everything”.
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Se Something from Nothing lascia qualche dubbio, The Feast and the Famine (Washington) li elimina immediatamente con un bell’intro i cui bpm, la chitarra “sporca”, che ricorda molto White Limo, e la batteria sincopata lasciano presagire una canzone “potente” che di certo non lascerà indifferenti. Infatti, a quel ”Revolution, on its way…” quasi ci si aspetta che debba scoppiare davvero una rivoluzione.
L’adrenalina sale e i Foo ne sono responsabili perché il ritornello è di una rabbia pazzesca! Uno di quei ritornelli che, sentiti dal vivo, fanno partire il pogo e diffondere il delirio nel pubblico. Sapete, uno di quei momenti in cui si spera di non aver perso il portafogli in mezzo alla selva di gambe. Sembra quasi che Dave guidi lo show dettando i tempi con la sua voce bestiale e pensi: “Al mio Amen scatenate l’inferno!”.
La perfetta sinergia degli strumenti ed il crescendo del breakdown alla fine del secondo ritornello spianano il campo ad un finale coi fuochi d’artificio. La potenza nelle pennate sulle chitarre, il tocco inconfondibile di Nate al basso, quel motore sincrono di Taylor alla batteria ed una traccia vocale da brividi sono gli ingredienti perfetti per la canzone perfetta!
La ciliegina sulla torta la mette l’outro. La vemenza con la quale i Foo terminano The Feast and the Famine lascia veramente a bocca aperta.
Voto: 10/10 CANI RABBIOSI
Curiosità: Il testo della canzone riflette sulla sommossa scoppiata a Washington D.C. dopo l’assassinio di Martin Luther King Jr.
Ah, un’ultima cosa, provate a cantare: “It was a piece of a pebble!” al posto di: “It was the feast and the famine!”. Sarà una piacevole sorpresa.
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Euforici per The Feast and the Famine passiamo ad ascoltare Congregation (Nashville) che parte in modo molto convincente. Yes, l’intro è adorabile e la prima strofa sembra degna dei migliori Foo.
“Now my world is in your hands!” e sbam! Parte con impeto un ritornello con un riff da brividi, accompagnato alla perfezione dal resto della band. Ciò che dà potenza al tutto è il ritmo scandito sul rullante negli intermezzi tra una frase e l’altra. La traccia vocale è una di quelle che rimane impressa e che ci si ritrova a canticchiare durante la giornata, nei momenti di pausa. È pregevole il passaggio tra il primo ritornello e la seconda strofa. Molto semplice, ma realizzato con una certa attenzione alla dinamica che risulta piacevole. La seconda strofa ed il secondo ritornello ci proiettano direttamente all’assolo di chitarra. Molto Hard Rock, molto newyorkese, impreziosito dalle pause della band.
Ma! Eh già, c’è un “ma”! Ma alla fine del guitar-solo un bridge, particolare già sin dall’inizio, rompe la melodia principale. Eccole! Sono tornate le tastiere! Per capirci, tutto sembra molto alla The Doors, però non appare una scelta azzeccatissima, troppo studiata per il contesto della canzone power-pop. Decisamente fuori dal tema musicale principale, pretenziosa e non tanto piacevole da ascoltare.
Forse, chi aveva storto il naso, adesso sta proprio sbuffando!
Questo brano era il perfetto candidato per occupare il primo gradino del podio insieme alla elettrizzante The Feast and the Famine, ma l’azzardo psichedelico gli fa perdere punti.
Voto: 8/10 SPERIMENTATORI
Curiosità:
- Ha partecipato alla registrazione del pezzo il cantante e chitarrista country Zac Brown.
- Durante il su criticato bridge sembra che Dave dica: “Non posso” al posto di: “No false hope”. Abbastanza curioso e degno della rubrica “Le canzoni travisate” del Trio Medusa su radio deejay.
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L’accoppiata Whatdid I do?/God asmy Witness (Austin) non lascia molte tracce nella mente dell’ascoltatore. Questi due brani sembrano messi lì quasi come una sorta di riempitivo per completare l’album. Ok, sono orecchiabili e canticchiabili, ma anche un coro da stadio lo è e di certo non compriamo un disco per ascoltare ciò che potremmo riprodurre con i nostri amici, dopo due o tre pinte, in una birreria qualunque. Da segnalare il fatto che l’assolo di What did I do? ricalca un po’ le orme di quelli scritti da Kurt Cobain che riprendono la traccia vocale in modo abbastanza minimale.
Per carità, tutto eseguito alla perfezione, ma di certo non si sente il sound che ci aspetteremmo da chi ha composto canzoni come The Pretender o These Days. La cavalcata elettrica in due parti What Did I Do?/God As My Witness paga dazio più al dozzinale FM 70’s rock dei Boston che non alla scena hardcore newyorkese alla quale Grohl sognerebbe di rifarsi.
Voto: 4.5/10 APPROSSIMATIVI
Curiosità: Per l’esecuzione dei pezzi, la band si è avvalsa della partecipazione del virtuoso chitarrista Gary Clark.
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Molto delusi dal “duo” precedente, riluttanti e invogliati a staccare tutto, quasi non ci accorgiamo che è partito l’intro di basso di Outside (Los Angeles). Ci sveglia dal torpore un riff esplosivo!
Sembra fatto apposta. Sembra quasi che i Foo ci vogliano dire: ”Ok, abbiamo fatto schifo. Ci perdonate?”. Beh, al primo impatto la risposta è sì!
Potenti e incazzati! Così li vogliamo!
Bella la traccia vocale, con dei piacevolissimi coretti di sottofondo nelle strofe, bello il ritornello e stupendo il contorno musicale. Grohl e compagni sono tornati ad essere i “professori” dell’hard rock, quelli che ci sanno fare e lo fanno meglio degli altri. Certo, tutto molto “mainstream” e “già sentito”, ma chissenefrega?!? Sicuramente meglio di Whatdid I do?/God as my witness, questo è poco, ma sicuro!
Però, come nei migliori thriller, non mancano i colpi di scena. Al minuto 3:06 un breve passaggio ci porta alla solita sperimentazione musicale. Ormai l’album ci ha abituati, nulla ci stupisce.
Ascoltiamo attentamente e giudichiamo.
Mmmh, non è male! È strano, ma non brutto!
Si è appena concluso una specie di assolo floydiano, ovviamente con le dovute proporzioni, rilassante ed in contrapposizione col resto della canzone. I Fighters, facendo esperienza con Congregation, hanno affinato la tecnica e superato il test. Promossi!
Il finale ritorna sulle melodie precedenti e conclude il brano con dignità.
Voto: 7/10 GIOCHERELLONI
Curiosità: Alla registrazione del brano ha partecipato anche Joseph “Joe” Walsh, chitarrista statunitense e, dal 1976, componente del gruppo musicale Eagles.
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In the Clear (New Orleans) presenta un intro molto orchestrato (non a caso questo è un brano eseguito in compartecipazione con la Preservation Hall Jazz Band) il cui tempo è scandito dal rullante di Taylor incastrato in uno dei suoi soliti ritmi coinvolgenti. Le sonorità di questa parte iniziale rispecchiano quelle scelte un po’ per tutto l’album e che ritornano di tanto in tanto. Decisamente diverse da quelle usate per Wasting light (album in studio – 2011), molto più “docili e mansuete” e in un certo senso più ricercate.
Alla fine dell’intro ritroviamo lo schema fisso che vede due chitarre accompagnare la voce su un’unica nota, suonata in ottavi, alle quali, in seguito, si aggiunge la batteria che batte i quarti con la cassa. Infine completano la rimpatriata il basso e la terza chitarra. Termini tecnici a parte, è facile capire come ritorni spesso nell’album questo tipo di ingresso alla strofa iniziale. Questo brano sembra la rivisitazione di ciò che è già stato sentito nelle cinque canzoni che lo precedono : stesse sonorità inconsuete, stesse modalità di “intreccio” tra gli strumenti. Ma, alla fine, Sonic Highways è stato concepito come un concept e quindi ci può stare.
La prima strofa, con un improvviso crescendo, ci catapulta in un ritornello che non è niente male. Non è ai livelli di quello di The Feast and The Famine o di Congregation, però si difende con le proprie “armi”: traccia vocale pulita e composta (in questo brano scordatevi di sentire la voce possente di Dave), ritmica power-pop e pause della band che renderebbero cool anche una marcia funebre.
Il tutto si ripete in una seconda strofa ed in un secondo ritornello, seguiti da una parte in cui si riprende la melodia iniziale. Il finale è costituito, sostanzialmente, da un ritornello con qualche variazione sul tema e un outro uguale all’intro.
Oh! Già finita? Niente tastiere, assoli psichedelici o nani che suonano il banjo?
Strano!
Senza tanti fronzoli, il brano non riesce a trasmettere niente di che, ma, d’altronde, non nasce per essere la main-track dell’album.
Voto: 6/10 LINEARI
Curiosità: La Preservation Hall Jazz Band deve il suo nome alla Preservation Hall che fu fondata nel 1961, nel quartiere francese di New Orleans, con lo scopo di preservare, perpetuare e proteggere il Jazz tradizionale della città.
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Con Subterranean (Seattle) si apre e si chiude la parte più intimista dell’album in cui Dave vuole condividere i suoi ricordi con gli ascoltatori. Quale occasione migliore se non quella di farlo nella canzone dedicata proprio alla città a cui Grohl è molto legato?
Sarebbe normale aspettarsi un brano con sonorità grunge, perché proprio a Seattle è nato quest’ importante movimento rock del Novecento, ma non è così e lo si capisce già dai primi secondi in cui parte un lieve crescendo di chitarre leggermente distorte che, in un successivo fade out, lasciano il sottofondo agli archi. Il ruolo principale lo rivestono la chitarra pulita e la voce. A 0:46 rientra in scena, in punta di piedi e con molta eleganza, la chitarra distorta con un cambio del tema musicale. Successivamente la batteria ed il basso si uniscono alla chitarra arpeggiata e a quella distorta in un tripudio di delicatezza e dolcezza in quella che rappresenta la parte che precede quella centrale e fondamentale della canzone.
La voce è quasi sussurrata, cristallina e passionale.
Straordinario l’inseguirsi lento ed inesorabile tra questa e l’arpeggio di chitarra. Non si “acciufferanno” mai: “You might think you own me/I know damn well you don’t/Oh no, oh no, you don’t”.
Dopo queste parole arriva il momento clou della canzone, il più alto dal punto di vista emotivo e tecnico. Si vede tutta la meticolosità dei Fighters nel preparare questa parte, nulla è lasciato al caso. La chitarra distorta segue la traccia vocale per sottolineare la malinconia del testo, la chitarra pulita continua imperterrita il suo inseguimento , basso e batteria creano il tappeto di accompagnamento con molto garbo. Signori, se non si raggiunge la perfezione poco ci manca!
Il brano si ripete con la stessa struttura per una seconda volta, con il basso e la batteria che danno più vigorosità al sound, e termina in un outro strumentale un po’ svogliato, ma carico di sentimento.
È incredibile come questa canzone riesca a trasmettere, con molta semplicità, tantissime emozioni.
Dave e compagni sono stati dei maestri nel creare un’atmosfera nostalgica. All’inizio il tono epico, imposto dagli archi, incute un po’ di tensione e irrequietezza, tiene sulle spine. Successivamente il clima si distende con delle sonorità che riescono a riesumare dei dolci ricordi di persone o cose ormai perse nel tempo, come i ricordi d’infanzia o di amori lontani.
Il brano non è solo un racconto di frammenti di vita di Dave, ma è stato pensato per far rievocare all’ascoltatore dei ricordi personali, tutto in una semplicità e delicatezza che fanno venire la pelle d’oca.
Voto: 9/10 SENTIMENTALISTI
Curiosità: Per l’esecuzione del pezzo i Foo si sono avvalsi della partecipazione di Benjamin Gibbard, conosciuto per aver formato numerosi gruppi indie come i Death Cab for Cutie o i The Postal Service.
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I am a River (New York) è il brano che chiude l’album ed è, per mood e sonorità, una sorta di proseguimento di Subterranean. L’impronta dell’intro è praticamente la stessa: inizio in crescendo della chitarra distorta, chitarra pulita in arpeggio, traccia vocale da ballad malinconica ed i poveri Taylor (batteria) e Nate (basso) che aspettano il loro turno per aggiungersi agli altri. Sembrano due canzoni uscite dalla stessa “catena di montaggio”. Il continuum è certamente riuscito, ma è lecito aspettarsi qualcosa di diverso, perché altri sette minuti ad immalinconirsi e l’ascoltatore si taglia le vene. I Foo Fighters, però, non sono nati ieri e sanno come spezzare il ritmo in una canzone ed infatti a 2:45 vengono incontro alle nostre esigenze inserendo in crescendo, neanche a dirlo, un bridge liberatorio che precede il fulcro della canzone: l’infinito ritornello in cui viene ripetuto solamente “I am a river!”. Mi viene in mente una frase letta su Nonciclopedia cercando Fu Faiters: “La loro musica si caratterizza dal fatto che un unica strofa viene ripetuta all’infinito, cosicché i pochi che dopo aver sentito una loro canzone non hanno detto “Sta canzone è peggio di una martellata sui coglioni… sono di diritto loro fun” .
Scherzi a parte, il ritornello si ripeterà tre volte, intervallato da brevi bridge musicali.
In esso si può apprezzare il ritorno del testo quasi urlato e l’uso degli archi della Los Angeles Youth Orchestra che rivestirà il ruolo da protagonista nell’outro, molto concertato e dilatato in trentadue secondi, che chiude l’album.
Voto: 6.5/10 ORCHESTRALI
Curiosità:
- La Los Angeles Youth Orchestra dà la possibilità ai giovani musicisti della zona di Los Angeles di eseguire musica sinfonica a fianco di musicisti professionisti. È simpatico come, sul sito ufficiale, tendano a precisare che: “The Los Angeles Youth Orchestra is a true youth orchestra, not a college or post-college age group”.
- Alla realizzazione del pezzo ha partecipato anche il cantautore e pianista americano Kristeen Young.
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VOTO ALL’ALBUM
È un album che presenta alti (The Feast and the Famine e Subterranean) e bassi, anzi bassissimi (What did I do?/God as my Witness) ed in mezzo tante canzoni che, se vi piace il rock di matrice classica, ben fatto ed un pochino patinato, troverete stupende, ma se pretendete qualcosa in più, spunti sbalorditivi e trame oblique, apprezzerete senza entusiasmo. Sonic Highways è un progetto con una forte idea caratterizzante di fondo e che verrà ricordato come il lavoro più ricercato dei Foo Fighters, essendo un concept, però non verrà annoverato tra gli album che hanno cambiato il modo di pensare l’hard rock.
7/10 ERRANTI
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