“Cronache di uno studente fuorisede” è, fra le altre cose, un esperimento narrativo. La scrittura non è lineare, le frasi sottolineate indicano i pensieri che mi son balenati in testa, quelle in grassetto sono relative alla mia parte razionale e quelle in corsivo alla mia parte emotiva. Il risultato potrebbe sembrare strano e un po’ schizofrenico. Beh, lo è.
Se non hai mai letto queste Cronache inizia qua, se invece ti sei perso la Saga di Daniela inizia da qua.
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Sono ormai a Padova già da un po’ e, dopo aver sconfitto la mia precedente coinquilina in una fredda battaglia psicologica, decido di togliermi delle piccole soddisfazioni, tra cui qualche rissa in notti di studentesco ordinario delirio.
Dopo aver rischiato lo sfratto per via di una vita solitaria non proprio al massimo dell’ordine e della pulizia mi appresto ad accogliere i miei futuri coinquilini. Speriamo bene.
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Capitolo 9: Santi e THC
Parte I: Nuovi Arrivi
Nove e mezza di mattina, ho finito di aggiustare la camera, ho lavato la tazza usata per la colazione e ripulito i fornelli dalle macchie di caffè. Tra mezzora tornerà la padrona di casa con altri ragazzi per far vedere loro la casa. Meno di ventiquattro ore prima aveva assistito ad un salone con pane ammuffito gettato per terra, una cucina non lavata da due settimane e una pozza di vomito nel bidet nel bagno. Il tutto accompagnato da una rossa mozzafiato e un pavimento appiccicoso. Ah già, c’era anche Simba.
“Chi credete che porterà oggi?”
“Speriamo sia qualche ragazza…”
“Non credo, la ruota gira.”
Esco sul balcone e mi accendo una sigaretta, i raggi del sole mi riscaldano leggermente mentre mi appoggio sulla ringhiera stiracchiandomi come un rettile. Osservo il viale alberato, il viavai di pedoni e poche nuvole che timide passeggiano nell’indaco.
Inspiro leggermente dal filtro e abbasso lo sguardo attirato da un veloce movimento: un simpatico ragnetto cammina sul cornicione venendo verso di me.
Espiro fumo nero e mi avvicino a lui. Lo guardo e i suoi quattro occhietti lucidi mi rispondono emozionati. Si avvicina un altro po’ arrivando a toccami il dito con le sue morbide zampine pelose. Muovo il polpastrello contro di lui: flette velocemente il corpo scappando via sulla ringhiera impaurito. Mi siedo sui talloni e decido di dargli il tempo che gli serve. Lascio il dito fermo lì e aspetto. Dopo qualche minuto di tentennamenti finalmente si decide: ci sale sopra e inizia a camminare intorno all’unghia.
È una stretta di mano.
È così che io e Peter facciamo amicizia.
“Perché Peter?”
“Mi sembra un bel nome per un ragno.”
“E poi richiama Peter Parker…”
“D’accordo.”
Mi siedo su una sedia portando il mio giovane amico vicino al volto. Mi fissa con il suo sguardo carico d’affetto, non vuole separarsi da me. Lo sbatacchio leggermente sulla ringhiera: “Forza Peter, torna a casa.”
Mi risale il dito percorrendo il palmo e iniziando a girare in circolo sulla mano, è grande all’incirca quando un’unghia ed è vivacissimo.
“Il mondo lì fuori è troppo duro, vero? E va bene Peter, ti porto con me.”
Rientro dentro e scegliamo insieme il posto della sua nuova casa. Porto il dito vicino all’angolo della porta: si avvicina, scende curioso, fa un veloce giro guardandosi intorno e poi risale su: non gli piace.
“E va bene, Peter. Scegliamone un altro.”
Proviamo di tutto: dall’angolo sopra l’armadio a quello vicino l’amplificatore, non gli va bene niente.
Mi stendo sul letto sollevando le mani sul mio volto. Vedo Peter saltare da un dito all’altro lasciando piccoli filamenti di ragnatela. “Ah e quindi sei un ragnetto saltatore?”
Si volta, mi guarda e resta fermo per qualche secondo. Poi salta sul mignolo sinistro.
“Immagino che questo sia un sì.”
Mentre giocherella sulle mie dita sposto la mano accanto alla finestra per aprirla. È in quel momento che Peter ha un sussulto: salta sotto il bordo e si piazza tra essa e il termosifone. Comincia a correre in giro con quelle sue otto zampette finché non trova il posto che gli piace: inizia a muoversi fra le sbarre e il muro, fissando già qualche tirante di flessibile tela per la sua futura dimora.
“Oh, quindi hai scelto? Bene. Allora dormiremo vicini, Peter.”
Nello stesso momento sento il citofono suonare.
“Eccola.”
Mi alzo e vado verso il corridoio, schiaccio il pulsante e apro il portone. Resto sull’uscio aspettando Maria e le future incognite della giornata.
I passi sbattono sulle scale, tendo l’orecchio e ascolto: posso percepire due ritmi diversi.
Il primo è di tacchi che calpestano come zoccoli duri i gradini in marmo, il secondo è più lento, morbido e leggero; scarpe da ginnastica che pigramente si spostano sulla superficie emettendo un leggero fischio di gomma strofinata.
Dopo qualche secondo sono davanti a me, Maria indossa un paio di pantaloni neri e un pullover marrone dal cui bordo spunta il collo di una camicetta bianca. Mi guarda con sguardo di severo rimprovero tendendo le labbra sul volto.
La rassicuro facendole un occhiolino e sollevando il pollice.
Dopo qualche secondo intravedo anche il secondo ospite: è una sagoma che si nasconde dietro quella di Maria, cammina con lo sguardo basso, indossa un piumino invernale nonostante la temperatura sia sui 20 gradi, i jeans azzurri più anonimi del mondo e delle scarpe da ginnastica bianche. Ovviamente è un ragazzo.
“Beh, non ne volevamo uno tranquillo?”
“Non solleva neanche lo sguardo dal pavimento. Eccoti il sociopatico.”
“Congratulazioni.”
Finalmente mi raggiungono nell’ingresso.
“Buondì signora!”
La voce sibila severa: “Ciao Anon.”
Una volta entrati in casa Maria inizia a guardarsi intorno mentre i suoi occhi si aprono in preda allo stupore: ciò che il giorno prima puzzava ed era ricoperto di polvere, macchie, caffè, spazzatura, briciole e pozzanghere di vino e birra è oggi una superficie splendente, lucida e profumata al limone. Qualcosa che vale la pena chiamare ‘pavimento’.
La vecchia si avvicina a me e mi bisbiglia in un orecchio: “Anon, ma c-come diavolo hai fatto a mettere tutto a posto?”
Le faccio il sorriso più smagliante che posso: “Ieri sera sono andato a donnacce.”
“C-c-che?”
“Già. È questo il mio segreto.”
Le faccio un occhiolino e la sorpasso rivolgendomi all’ammasso di piume che mi si presenta davanti tendendogli la mano.
“Ehilà, piacere. Sono Anon. Dammi pure la giacca che fa un caldo boia. Te sei…?”
Finalmente solleva la faccia e mi guarda: “P-p-piacere. A-A-A-Andrea.”
Andrea ha gli occhi più blu che io abbia mai visto, capelli biondi chiari liscissimi che partono dritti come erba di un prato scozzese, profuma leggermente d’Acqua di Colonia, occhiali con montatura metallica e lenti ovali, una collanina d’oro addobbata con un piccolo crocefisso gli circonda il collo, spalle spioventi da chi non ha mai fatto attività fisica e una pancia stagionata da anni di soppressata e funghi sott’olio. È leggermente più alto di me, carnagione latte pallido e totalmente privo di qualunque tipo di peluria corporea. Nonostante gli occhi più belli che abbia mai visto è un altro il dettaglio che mi tiene lo sguardo incollato sul suo volto: un bel brufolo spunta tra il naso e la guancia. Il bordo è rosa e si in scurisce sempre di più man mano che si risale sulla superficie del cratere fino ad arrivare ad un bel rosso porpora venoso. Sulla cima una bolla di pus bianco sembra pulsare ed è pronta ad esplodere portando con sé ettolitri di putrescente liquido lattiginoso.
“BASTA!!”
“Smettila di guardarlo, cazzo!!”
“N-n-n-non ci riesco!”
“AAAARRGH!!”
“È più forte di me!”
Dopo qualche attimo di esitazione mi stringe la mano e vorrei che non l’avesse fatto: un inanimato pezzo di carne si poggia sul mio palmo, umido e sudato come se fosse ricoperto di alghe marine, totalmente incapace di ricambiare la stretta. Mi sembra di aver infilato la mano in una vaschetta di sardine marce, tempo due secondi e le sento scivolare via.
Mi asciugo la mano sul pantalone facendo finta di niente e ostentando un sorriso benevolo: “Bene Andrea, vieni con me che ti mostro la casa.”
Il tour procede liscio e senza intoppi: ogni stanza sembra appena uscita da un catalogo dell’Ikea, io parlo con la mia scioglievole cadenza da venditore di pentole e Maria è a dir poco emozionata dal livello di cambiamento che son riuscito ad ottenere.
Dopo aver visto le camere da letto ed esser stato zitto per tutto il tour Andrea si gira di scatto e guarda Maria: “Okay, prendo la doppia ad uso singola.”
Una scarica di stupore colpisce sia me che la vecchia bacucca. La vedo sgranare gli occhi portandosi le mani al petto: “La doppia ad uso singola? M-m-ma sicuro di farcela?”
A: “Si. Ne ho già parlato con i miei, voglio scappare da lì il prima possibile.”
Mi intrometto: “Scusa, ma ‘lì’ dove?”
A:“Per adesso abito in un collegio maschile. È un inferno.”
Io: “Beh dai amico capisco che le ragazze sono importanti per-”
Mi interrompe alzando la voce: “NO. TU NON PUOI CAPIRE.”
“Che diavolo gli avranno combinato a ‘sto poveraccio?”
“Boh. Ma qualcuno potrebbe chiedersi esattamente della stessa cosa se dovesse vedere Daniela oggi.”
Io: “Dai su, racconta. Che sarà mai?”
A: “Beh c’era un livello di nonnismo assurdo…”
Io: “Nonnismo?”
A: “Si.”
Io: “In un collegio cattolico?”
A: “Esatto…”
Io: “E che cosa facevano?”
A: “Beh, tanto per cominciare ad ogni pasto i vassoi arrivavano sempre ad un’estremità del tavolo, ognuno si serviva la propria porzione e poi passava il vassoio in fondo… I ‘nonni’ si sedevano sempre all’inizio e noi matricole dovevamo rimanere in fondo. Alle volte quando arrivava il nostro turno non era rimasto più niente da mangiare.”
Io: “Stai scherzando?”
A: “No. Tre pasti su quattro devo farli con quello che compro al supermercato e nascondo in camera. Patatine più che altro.”
“Ma dai! Figurati se non lo fanno mangiare!”
“Che razza di posto è?”
“Parla quello che congela dischi di piscio in piattini di plastica.”
Decido di insistere: “Ma dai! Non ci credo che non te fanno magnà.”
A: “Il direttore è un vecchietto che non se ne frega niente e comunque questo non è niente. Devo scappar di lì il prima possibile.”
Maria asseconda Andrea, qualunque cosa lui dica lo appoggia con frasi di sostegno e incoraggiamento: da quando ha sentito le paroline magiche ‘la prendo’ sarebbe disposta a far di tutto pur di non lasciarselo scappare. L’angioletto potrebbe pure dire che ama spellare i bambini usando un coltello a lama lunga e Maria gli chiederebbe “Quella per il filetto?”
La discussione procede sul vago un altro po’ e Andrea non si sbilancia più di tanto.
“Guardate che sguardo distrutto.”
“Poverino, chissà cos’altro gli hanno fatto…”
“Già, possiamo imparare molto.”
Io: “E quando avresti intenzione di trasferirti?”
A: “Beh il prima possibile.”
Lo guardo spostando la faccia di lato e sollevando le spalle: “Il che significa…?”
I suoi occhi azzurri tremano appena: “Beh se fosse possibile… P-p-pure oggi…”
Rimango perplesso per qualche secondo. Non è così facile passare da una modalità “libertà, Simba & luridume” a una in cui si torna a convivere con qualcuno.
Io: “B-beh per me non c’è nessun problema e anche se ci fos-”
Maria completa la frase sorridendo nervosamente: “E anche se ci fosse comunque non potresti decidere!”
“I veneti e il denaro.”
“È una regione di rabbini.”
Io: “Certo, non potrei decidere. In ogni caso per me non ci sono problemi, ho già liberato alcuni scaffali in cucina e in soggiorno e la doppia è sfitta da più di due settimane, quindi puoi venire quando vuoi.”
Andrea riempie i suoi occhi di lucida riconoscenza: “Oh Dio sia lodato!! Grazie mille! Finalmente! Vado subito a prendere le valigie.”
Io: “Aspetta aspetta… vuoi dirmi che è già tutto pronto?”
A: “Si! Le ho preparate da più di una settimana!”
Gli rispondo ostentando un sorriso poco convinto: “Oh, b-b-bene!”
“Non ci credo.”
Ci salutiamo velocemente e Maria si offre di accompagnare Andrea con la macchina a prendere le sue cose: delle valigie e qualche cartone, tutto perfettamente alla portata di una station wagon.
In meno di un’ora la mia vita da amabile scapolo felice viene interrotta da cataste di polo, odore di Acqua di Colonia, due valigie stracolme e dei cartoni con libri, quaderni, un ventilatore e una lampada.
Osservo la mia amabile solitudine venir distrutta mentre sorseggio tè caldo appoggiato alla porta. Accade tutto troppo velocemente.
Dei libri di chimica prendono posto in soggiorno.
“Lì ci mettevo il vino rosso…”
Dei biscotti integrali e buste di patatine riempiono scaffali in cucina.
“Lì ci lanciavo con l’immondizia.”
Un piumino blu invade l’attaccapanni.
“Lì ci mettevo la giacca di pelle… Accanto a quella di jeans.”
Pezzo dopo pezzo il mio equilibrio viene smontato e modificato, avevo decisamente perso l’abitudine a vivere con qualcuno.
“Niente più camminate in giro nudi.”
“Niente più scorpacciate di fagioli e conseguente peto libero.”
“Niente più film a volume alto alle 4 di notte.”
“Niente più piatti sporchi per settimane.”
“Niente più festini con altre due camere da letto libere per gli amici.”
“Niente più fumo per casa.”
La camera doppia, che fino a qualche tempo prima viveva ancora del fascino delle due ex coinquiline inglesi, adesso odora leggermente di sudore maschile ed è piena di libri e scartoffie.
Io: “Hey Andrè, ma cosa studi?”
A: “Io? Chimica.”
Io: “Oh, bello. E come va?”
A: “Beh ho iniziato quest’anno e ho fatto tutti gli esami.”
Io: “…Caspita eh. Sei bravo.”
A: “Beh, mi piace.”
Mi stendo sul letto sospirando. In casa è appena arrivato un sociopatico timido secchione. E due in una casa sono decisamente troppi.
———— Epilogo ————
Quella sera, per la prima volta dopo tanto tempo, ceno con qualcuno.
Andrea si prepara del pollo comprato quel pomeriggio, per poi condirlo con del formaggio di capra, pomodori e carote. Io mi arrangio con della pasta col tonno.
“Allora dai, racconta un po’. Che razza t’hanno fatto in quel posto? Sembravi davvero sconvolto.”
L’angioletto poggia la forchetta ed inizia un lungo racconto.
In questo collegio le matricole son trattate come schiavi dagli studenti più anziani. Devono assecondarli in ogni loro richiesta: dal portargli il giornale ogni mattina al cedergli il posto nella sala comune. Lui stesso ha dovuto obbedire a qualcuno di questi ordini, che comprendevano spesso anche cessioni di cibo.
“Vabè scusa, ma fammi capì Andrè… Questi due-tre ragazzi ti tormentavano e tu ti sei stato buono?”
“Che avrei potuto fare?”
“Beh, volevano che gli prendessi il giornale ogni mattina no?”
“Si…”
“Beh, non lo facevi! Se t’avessero alzato le mani saresti potuto comunque andare da un cazzo di rettore o un checcazzonesò di qualcuno.”
“A-A-Anon… M-m-ma, scusa s-se te lo chiedo eh… Ma d-d-devi proprio essere così volgare?”
“Oh Gesù, ecco il principino.”
Sospiro provando ad evitare di sbattermi una mano sulla fronte: “Vabè, hai capito ciò che ti voglio dire.”
Infila in bocca un altro boccone di pollo: “Non potevo.”
Io: “E perché no?”
A: “Beh, in questo collegio è proibito chiudersi le porte a chiave.”
Io: “COSA?”
A: “Già. Devono rimanere sempre aperte, anche quando si è fuori.”
Io: “E perché mai?!?”
A: “Beh, è una regola dell’istituto. Devono rimanere aperte sia che tu sia dentro oppure no. Che poi la stanzetta è tre metri per quattro, esclusa scrivania e armadio. Un buco.”
Io: “E quindi?”
A: “Quindi è capitato che qualcuno disobbedisse e che gli abbiano distrutto la camera quando lui era a lezione.”
Sgrano gli occhi sbattendo una mano sul tavolo: “Stai scherzando?”
A: “No. Sono entrati di mattina in camera di un mio amico mentre era a lezione e gli hanno spruzzato schiuma da barba su vestiti, quaderni, libri, letto… ovunque.”
Io: “…”
A: “Ad un ragazzo hanno bruciato le tende.”
Io: “C-”
A: “Ha dovuto ricomprarle di tasca sua.”
Io: “M-”
A: “Ad un altro dei libri… Facendogli la pipì sul letto…”
Io: “MA CHE DIAVOLO DICI?!? È un collegio cattolico o un campus americano?!?”
A: “Eh lo so… Però comunque nessuno fa niente perché nessuno mai vede nulla. Non si sa chi siano esattamente i responsabili, però comunque è una situazione ben conosciuta da tutti.”
Io: “Ma porca miseria! Scusa eh, ma se ti distruggono la stanza vai il giorno dopo a colazione in mensa e gli butti una tazza di tè bollente in faccia, no? Come avete fatto a subire così per quasi un anno?”
A: “Non lo so… S-s-stavo impazzendo. Poi non è che puoi reagire così…”
Io: “E perché no?”
A: “B-b-beh non ce la faccio.”
Io: “Mmmh… E poi in mensa ti vedrebbero altre persone quindi conseguenze legali e chissà cos’altro. Si si, capisco.”
La sua mano destra inizia a tremare piano, incapace di star ferma e di infilzare un pomodorino.
“Chissà se anche Daniela riesce ancora a mangiare.”
“Smettila, la situazione qua è molto diversa. Noi abbiamo subito per mesi interi e POI abbiamo reagito.”
“Che poi è stata una reazione blanda.”
“Ricordo che, tecnicamente, abbiamo rovinato solo roba nostra…”
“Qua è molto diverso. È prepotenza allo stato puro.”
“Odio i prepotenti.”
“Pensi quello a cui penso io?”
“Decisamente si.”
Poggio la forchetta nella padella da cui avevo appena finito di mangiare e incrocio le dita sotto il mento.
Finisco di masticare lentamente mentre mantengo il mio sguardo sul cucciolo grasso e biondo che è seduto alla mia sinistra. Deglutisco e inspiro lentamente rendendo la voce un po’ più rauca.
Io: “Andrea.”
A: “Si…?”
Gli sorrido leggermente facendo una smorfia: “Io ti vendicherò.”
A: “…”
Io: “…”
A: “…”
Io: “…”
A: “…COSA?”
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Foto di copertina di Antonio Nicolini.
Ricordo che tutti i fan padovani (e non) possono mandarci i loro scatti. Una giuria popolare e imparziale (io) li sceglierà per farli diventare future copertine delle Cronache.
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