ESPERIMENTI LETTERARI Le parole che non ho detto

Le parole che non ho detto – Intermezzo

Scritto da Eulalia

Le parole che non ho detto –

Intermezzo

 

LA SPESA

 

Provo da mesi a studiare senza successo, se sedersi e sfogliare senza interesse qualche pagina di un testo universitario può considerarsi studio. Il mio segreto è non pensarci, perché se solo provo ad immaginare tutte le responsabilità che comporta prendere una laurea qualsiasi, e nella fattispecie una laurea in Medicina, mi metto a piangere. L’idea che quando ero un pischello di diciotto anni io abbia con gioia e sventatezza preso una decisione così importante per la mia vita mi terrorizza, considerato il fatto che ormai da tempo evito accuratamente ogni assunzione di responsabilità. Fare festa fino a tardi, guardare un film dietro l’altro, riconoscere in me tutti i fattori di rischio per le principali malattie cardiovascolari e oncologiche è un modo come un altro di non diventare grande. Eppure, nonostante tutto questo, non ho ancora mollato. Un filo sottile mi tiene appeso a quella facoltà.

 

Quando mi scoccio di far finta di leggere rotoli di elenchi puntati e di fissare con sguardo assente figure incomprensibili, vado a fare la spesa. Mi rendo conto di avere a tratti la vita di un sedicenne e a tratti quella di un settantenne – mi mancano soltanto le ore spese a guardare i cantieri in costruzione – ma a me andare al supermercato piace. Mi distrae.

Più precisamente passo del tempo piacevole guardando i carrelli degli altri: dalla spesa altrui si traggono più informazioni sulla loro vita di quanto comunemente si pensi. Se hanno una famiglia numerosa o dei figli piccoli, se stanno per organizzare una festa, se sono vegetariani o poveri (mi ha sempre colpito come donne indiane riescano a portar via tre buste piene di roba spendendo la stessa cifra che uso io per comprare tre birre, un pacchetto di patatine, hamburger preconfezionati e una generosa scorta di plumcake – la mia spesa tipo), se hanno il colesterolo alto o vogliono dimagrire, tutte queste cose io le so soltanto guardando cosa mettono sul nastro nero della cassa. È un po’ come leggere il loro diario segreto.

Ovviamente non mancano i ricordi lancinanti di spese fatte con lei, come la volta in cui per farle uno scherzo idiota l’ho investita col carrello facendole seriamente male a un ginocchio, ma principalmente mi faccio i fatti altrui.

Guardare le cose che compro, ogni volta più o meno le stesse, mi mette tristezza, così suddivido in categorie tutti gli avventori del supermarket, li osservo, mi ci affeziono persino. Guardo anche che giornali comprano, e spesso trovo un piccolo e perverso piacere nel prendere oggetti imbarazzanti – del gel ritardante, un pacco di preservativi king size, tre copie di Topolino o, una volta, quindici mutandine femminili in pizzo giallo – e a metterli in bella mostra in cima al cumulo della mia misera spesa per vedere la faccia della gente. Mi piace molto di più di quando vengo preso da crisi di risarella perché sono strafatto o prendo in giro quelli che passano al bar dell’università perché si vestono come pavoncelli o come sfigati.

 

Tornando a casa ho il passo più leggero, e rido da solo.

 

 

 

 

 

 

SARA

 

Per dire la verità, in questi due anni una storia stabile l’ho avuta. Non ci penso mai, e non so perché mi viene in mente proprio adesso, mentre la aspetto. È durata quattro o cinque mesi: ero single da poco, a pezzi, ma pieno dell’energia che ti riempie quando sei sull’orlo del baratro e non hai intenzione di caderci dentro.

È stato proprio in quel periodo che la mia carriera universitaria ha iniziato a colare a picco: ero troppo pieno di voglia di strappare a morsi la vita, troppo terrorizzato, ansioso, euforico per potermi mettere dietro una scrivania a studiare, e in quei giorni mi pareva giusto così. A tratti mi sentivo disperato, allora bevevo troppo e mi accasciavo sul divano di un amico sull’orlo delle lacrime, ripercorrendo mentalmente tutte le mie paure. Avevo l’ossessione di guardare le mani della gente cercando la fede, perché la mia più grande paura in quel momento era morire solo, non riuscire più a innamorarmi, aver bruciato la mia unica possibilità di avere anch’io un’anima gemella; non vedere la fede al dito delle persone mi sprofondava nella tristezza – per quanto avvenenti, realizzate, erano sole come sarei stato io – vederla mi faceva marcire dentro pensando che io, che ho sempre tuonato contro il matrimonio e l’istituzionalizzazione dell’amore, non l’avrei mai avuta.

 

Cadevo letteralmente da una ragazza all’altra, ci inciampavo, senza chiedermi nemmeno chi fossero o perché io stesso fossi lì, se non per il terrore di non avere un’altra chance, e fu così che conobbi Sara. Bella, anche se non di una bellezza abbagliante, emanava da lei qualcosa di positivo, nei riccioli biondi o nel sorriso smaccato e impudente, si innamorò subito di me per qualche sua strana perversione o perché il destino aveva deciso di mettere sulla mia strada quello di cui andavo alla disperata ricerca: un baricentro, una madre, un legame.

La adoravano tutti, mia sorella, i miei amici, perfino le mie amiche, e imbattersi in una ragazza che piace alle altre donne – a meno che non sia orba, zoppa o orrendamente stupida – ti fa immediatamente capire di essere di fronte ad un miracolo irripetibile. Devo dire che piaceva anche a me, tanto che nelle prime settimane mi sentivo quasi guarito; Marta non c’era più, pensavo a un’altra donna e oltre a scoparci mi ci svegliavo insieme e le facevo il caffè, andavamo al cinema, al pub con gli altri, adoravo la sua risata ed era lei, la maggior parte delle volte, a far ridere me. Mi piaceva tanto da aver fatto sparire quella tremenda mania di contare le volte in cui pensavo alla mia ex, innumerevoli dati i sette anni di relazione, anche solo per chiedermi cosa facesse o per ricordare un episodio passato. Mi piaceva tanto che l’ho lasciata.

 

Adesso che sono qui, a steccare la trecentesima sigaretta con la mia mezz’ora d’anticipo e a cercare di distillare un po’ di saliva dalle mie povere mucose, so dire con precisione perché è successo. Sara era in pace con se stessa. Sì, a volte non si piaceva, era timida, aveva difficoltà a legare con gli altri e spesso restava per ore a rimuginare su qualche stronzata detta tre giorni prima che avrebbe potuto metterla in cattiva luce, ma amava la propria vita, le cose che studiava, i suoi passatempi, amava me abbastanza da riuscire a trovare interessanti perfino le schifezze che scrivevo. Viveva una vita di serenità, di leggerezza, affrontava i problemi con l’idea di risolverli e non di rotolarcisi dentro, arredarli e alla fine chiamarli casa.

Lentamente ho iniziato ad odiarla. Sprofondavo nel mio tunnel personale di frustrazione, rabbia e invidia, e la prima cosa che feci fu iniziare a parlare di lei agli altri in tono sprezzante, godendomi le loro facce sconcertate e i loro vani tentativi di difenderla dalla mia volontà di distruggere tutto quello che toccavo. Mi sentivo bene fino a che non ci separavamo o lei si addormentava al mio fianco, chiudendo gli occhioni innamorati: allora iniziavo a nutrirmi di ogni suo difetto, a violentarla in continui confronti con Marta, con quello che lei non era in grado di darmi, con quel che volevo. Io non volevo serenità. Io ero infelice, e tutti dovevano esserlo con me.

 

La mia seconda mossa fu iniziare a tormentarla davvero. Passavo le nottate sui social network – armi pericolose nelle mani sbagliate – a ripercorrere con gli occhi tutti i post di Marta, le sue foto, le cose che io le avevo scritto o che lei aveva condiviso quando ancora stavamo insieme, quando eravamo felici, felici, felici – così mi pareva in quel momento. La mia relazione con lei si era spogliata di ogni difetto, di ogni idiosincrasia, l’avevo sublimata in qualcosa di irripetibile.

Di giorno invece Sara diventava vittima del mio sarcasmo, della mia rabbia, delle mie frecciatine continue sul suo essere debole, inconcludente e inadeguata. Ho cercato di ferirla fino a che potevo, volevo letteralmente vederla sanguinare, ma la sua rabbia così genuina, che aveva come base dei sentimenti autentici nei miei confronti, mi nauseava ancora di più.

Posso dire con certezza che sia la miglior cosa che mi sia capitata in questo breve, o interminabile, lasso di tempo, l’unica che avrebbe davvero meritato un investimento, se non fosse stato che io non volevo tirarmi fuori dal mio personale disastro: non volevo aprire gli occhi per rendermi conto che i fiumi di parole che scrivevo, che il “tu” a cui mi rivolgevo continuamente non era Marta, ma ero io. E cazzo, non volevo davanti agli occhi quell’esempio evidente di essere umano riuscito a ricordarmi ogni giorno i miei fallimenti.

Da quando le ho scritto, Marta mi ha inviato solo un paio di messaggi molto secchi sul luogo dell’incontro, e su di sé solo un generico “tutto bene”. Tutto. Bene.

Ma ora è qui, e io non riesco nemmeno ad alzare gli occhi per guardarla arrivare. So che cammina verso di me, è il posto giusto, l’ora giusta, io sono quello sbagliato.

——————————————————————

Clicca qua per la conclusione: Ultimo moivmento.

——————————————————————

Foto di copertina di Andrea Piccin.

——————————————————————

 

Questo articolo ti è piaciuto? Condividi, lascia un like o un commento!
Seguici anche sulla nostra pagina facebook QUA.

Comments

comments

About the author

Eulalia

Sono una studentessa di Medicina a tempo pieno e una scrittrice a tempo perso, all’anagrafe ho ventidue anni. In realtà, credo di non averne compiuti ancora diciotto.

Leave a Comment