Questa è la scena che vi dovete immaginare: un matrimonio. Ma non il momento della cerimonia, quello del pranzo, o quello in cui tutti prendono un amaro sfiancati dall’ennesima portata di brasato alle mele, agnello in purea d’ostriche o un’altra delle tante fantasiose pietanze da catering, stravaccati sulle poltrone di vimini del giardino.
A quell’ora, quella in cui dico io, la digestione ha già superato la fase più critica e il sole è tramontato; inizia a fare freddo, ovunque tranne nella grande sala da pranzo, sgomberata di tutti i tavolini che hanno ospitato raffinate bestemmie culinarie e vino di seconda scelta, illuminata a giorno e riscaldata da un’accesa musica latinoamericana: là tutti stanno ballando, dagli sposi, ubriachi del loro giorno di gloria più che dei cocktail annacquati serviti all’open bar, ai loro genitori, perfino i nonni riesumano qualche passo di liscio della gioventù perduta. E i bambini ballano anche loro, in mezzo agli amici degli sposi che si muovono scompostamente in quella che loro ritengono essere la degna imitazione di una salsa.
Ma la cosa più straordinaria, pensi mentre li guardi, è che loro si stanno divertendo. Pensano seriamente, o meglio sanno, che non c’è niente di meglio in quel momento che simulare tutti insieme una bella crisi epilettica a ritmo di musica. E qualunque altra persona sana di mente lo penserebbe, a osservarli, mentre io li invidio: come non gli importa niente del fatto che siano così ridicoli, visti dall’esterno. Ridono di cuore e mi guardano, io qui come un idiota che batto i piedi dal freddo, e mi fanno entusiastici cenni per chiedermi di unirmi a loro: anche i miei genitori, che hanno sessant’anni per gamba, sono là in mezzo. Sorrido e faccio il solito cenno di diniego, come dire “qualunque cosa ma non questo, voi siete pazzi!”. Poi mi viene da piangere.
E questa è la storia della mia vita.
IL PANORAMA
Vado a correre in Fortezza almeno un giorno sì e un giorno no. Ho iniziato ad andarci soltanto dopo che lei mi ha piantato, e, a dire il vero mi sento abbastanza ridicolo, un po’ come quei quarantenni che sputano i polmoni ogni mattina sulla ghiaia del percorso, sudati fradici, con i capelli pettinati all’indietro e la canotta aderente: e tutto questo anche se ho solo ventisette anni.
Correndo mi piace ascoltare i discorsi della gente a cui sto dietro o che supero: ce ne sono di tutti, dalle donnette di mezza età che fanno la loro passeggiatina ai suddetti quarantenni in coppia che si sfidano a fare più giri ogni giorno per buttare giù la pancia, dalle ragazze bellissime – se sono fortunato, in leggings – a quelle grassissime – sempre e comunque in leggings – fino agli adolescenti buttati sul prato a giocare al cellulare e fumare spinelli, che non sentono il minimo bisogno di affannarsi come noi e non ci degnano nemmeno di uno sguardo.
Devo dire che, tra tutte le categorie, quest’ultima mi pare la meno interessante: ho le palle piene di sms, stupidi intrighi d’amore, discussioni su quanti minuti dalla visualizzazione senza risposta di un messaggio debbano passare prima che tu possa considerarti scaricato senza appello, e da qui si evince che sono vecchio. Anche perché altrimenti non avrei mai usato il termine sms.
Anche gli atleti di mezza età non mi ispirano una gran simpatia, forse perché ultimamente mi sento proprio come so che devono sentirsi loro quando si danno appuntamento per un’apericena e poi la sera si guardano allo specchio desolati confessando a se stessi che non sanno neppure cosa sia, un’apericena.
Quelle che mi piacciono indiscutibilmente di più sono le amiche di passeggiata: avranno tutte un’età compresa tra i quaranta e i sessant’anni, ma una verve imbattibile nel gossip.
“…e quindi hai capito, lui parlava e all’improvviso…”
“…giù!”
“Preciso!”
“Ma dov’è successo?”
“In piazzetta dell’Aquila!”
Come parlano frivolamente di un povero cristo che la mattina stessa è caduto dal balcone di casa, papabile suicida, così affrontano la crisi economica, il tumore della vicina, le palle di pelo sputate dal persiano due pomeriggi fa proprio sulla poltrona nuova che guarda non sai che rottura, la ricetta del cheesecake, ma non quello con il Philadelphia, quello con la ricotta, che ora va bene che siamo in America, ma all’epoca il Philadelphia mica c’era – quale sia poi questa epoca di creazione del cheesecake, nessuno lo sa di preciso. Le adoro.
Forse mi piace ascoltarle perché penso sempre, durante le mie corse solitarie, di scrivere un giallo che parla di loro: di un omicidio in piazzetta dell’Aquila in questa città così bella e provinciale, di un’indagine svolta tra i fili del telefono delle case del centro, di un losco complotto dietro una morte apparentemente accidentale. Ma la verità è che io non so scrivere.
Tutte le mie velleità di scrittore si sono risolte in un talento sprecato e nel vano tentativo di raccontare gli istanti; mi sono sempre piaciuti soltanto quelli, forse perché trovo poetica l’idea, della cui fondatezza sono convinto, che tutte le storie, dalle più banali alle più grandi, si scrivano a partire da lì. Tuttavia a nessuno interessa leggere di come gli occhi di lei si sono posati sui vestiti di lui sparsi sul pavimento mentre sentiva scorrere l’acqua della doccia, capendo che era finita, o della vita immaginaria che lui si costruisce osservando una sconosciuta dal finestrino, finché il treno non parte. A me interessano queste cose, ci penso tutto il giorno, ma ho smesso di scriverle quando mi sono reso conto che ogni mia storia breve otteneva gli sguardi perplessi dei miei amici e dei commenti imbarazzati per la serie “è bello, veramente, ma non credo di averlo capito”.
E poi siamo sinceri: per scrivere bisogna avere tempo. Ricordo i giorni del liceo in cui la sera andavo a dormire con la testa piena di idee di trame, nomi e personaggi, e addormentandomi mi dicevo “ora riposo, domani avrò un sacco di tempo per pensarci”. E ci pensavo davvero. E lo farei anche ora, se non fossi impegnato a riempire le mie giornate di occupazioni inutili, tentativi di studio fallimentari, sbronze solitarie e droghe leggere. Di corse in Fortezza.
E se disgraziatamente trovo un momento per pensare tutto quello che riesce a venirmi in mente è la trama di una storia d’amore fallita. L’incapacità, o il rifiuto, di innamorarsi ancora. La delusione e l’amore che devono provare i miei genitori che si ostinano a chiamarmi ogni sera e a dirmi di tornare a casa il finesettimana se ho l’influenza, o gli amici quando bidono l’ennesima uscita, o le tasse da pagare e l’affitto e il modo più semplice per sopravvivere con due euro per tre settimane.
E di questa roba, diciamo la verità, non frega un cazzo a nessuno.
I MIEI VIZI
Vorrei dire che, dopo essere stato lasciato, ho passato tutte le fasi canoniche in cui si è giustificati a comportarsi da idioti per poi iniziare a fare l’adulto. Non è così.
Fumo un sacco di erba. E la cosa veramente divertente è che, pur avendo iniziato a sedici anni o giù di lì, sono sempre stato un fumatore molto più sporadico che occasionale. Ora invece ne compro a pacchi e fumo in continuazione, ne ho tirato fuori un vizio come quello delle sigarette, io che pontificavo sul fatto che fumarsi una canna dev’essere un momento di relax e non un gesto nevrotico. Tutte cazzate.
È un mio amico a vendermi l’erba ultimamente, un ragazzo con cui non ho una gran confidenza, ma che solo per questo dettaglio ha acquisito un’aura di losco fratello maggiore. Mi sento lusingato ogni volta che mi suona per salire a fumare con me, e poi mi sento uno sfigato. Anzi, la verità è mi viene la sudarella ogni volta che metto un po’ di fumo in tasca, vorrei correre per le strade urlando “A.C.A.B.!”, invece ostento una faccia impassibile e un’andatura sicura di me. Sono proprio la stessa persona che ero quando, in seconda media, uscivo per qualche coincidenza con un gruppo di ragazzini più grandi, che si passavano i primi spinelli dietro la parrocchia millantando effetti sensazionali: non mi azzardavo a toccarli, ero profondamente a disagio, eppure morivo dalla voglia di essere come loro. Tornavo a casa allo stesso tempo euforico per la gente “tosta” che frequentavo, e depresso perché sentivo che anche se li avessi imitati non sarei mai stato come loro. E sono ancora quel dodicenne curioso e frustrato, eccezionalmente sensibile e pronto a buttare nel cesso tutta la sua sensibilità per un cappellino girato al contrario: non potrei entrare nel club dei duri nemmeno se mi ci iscrivessi pagando una quota.
Ho riscoperto le dubbie gioie del sesso occasionale. Anzi, per onestà intellettuale devo dire che le ho scoperte per la prima volta, visto che sono stato fidanzato per ben sette anni con la stessa persona, che guarda caso era anche la mia prima ragazza. Sono uno sfigato? Sì, probabilmente sono uno sfigato. E per esserlo ancora di più agli occhi del pubblico posso aggiungere che, per quanto da più di un anno io lo stia perseguendo come fosse la mia unica ragione di vita, a me il sesso occasionale non piace.
Nell’ordine, odio ritrovarmi a spogliare il corpo di una persona che per me è solo un mezzo e non un fine, non tollero di sentire il suo odore, il rumore del suo respiro, non sopporto i più minimi difetti, lo svegliarmi accanto a una sconosciuta e ancora meno l’imbarazzante momento in cui, per evitarlo, le chiedo di non dormire da me. Detesto il momento in cui al piacere della conquista fa seguito un senso di amarezza ogni volta più profondo, di disgusto per me stesso che sono incapace di darmi da solo le conferme di cui ho bisogno, che aspetto le pacche sulle spalle degli amici durante i miei racconti proprio come un cane aspetta l’osso.
Nonostante tutto questo ho collezionato una quantità imbarazzante di amanti, proprio io che ero al liceo ero una specie di repellente naturale per le ragazze, un po’ per timidezza, un po’ per un’acne impietosa e un’imbarazzante tendenza a cedere alle pressioni di mia madre sui capelli a caschetto. Proprio l’altra sera il mio coinquilino ha raccontato di essere andato a letto con la sua istruttrice di atletica quando faceva la terza liceo, e questa notizia totalmente casuale mi ha fatto andare a dormire depresso: nemmeno se fossi stato più bello, più intelligente, meno nerd, la mia insegnante di pallavolo (facevo perfino uno sport da femmine) avrebbe mai pensato a venire a letto con me, semplicemente perché basta guardarmi per capire che io non sono il tipo che fa queste cose. Posso andare a letto con tutte le donne che voglio, ma loro continueranno, a prima vista, a scambiarmi per il cameriere o per un fidanzato che sta fermo al bancone della discoteca mentre la sua ragazza è a ballare. Poi, forse, ci staranno lo stesso.
Si potrebbe pensare che ormai mi sia cucito addosso il vestito del casanova navigato, che il mio ego maschile sia alle stelle e mi senta un vero stallone o cose del genere, ma nessuno può capire l’invidia che ho provato per lui in quel momento, o meglio l’invidia che provava il sedicenne brufoloso dentro di me, ancora vergine fino al midollo. In effetti, se il sesso occasionale mi ha insegnato qualcosa, è stato che, primo, fare sesso è molto più facile e molto meno interessante di quel che credevo a quell’età, ma, secondo, l’insicurezza che acquisisci durante l’adolescenza non ti lascerà mai.
Bevo come una spugna. Naturalmente, altrimenti come si fa a barcamenarsi tra tutti i sentimenti già citati? E poi, altrimenti, non avrei rappresentato abbastanza clichés.
Naturalmente, fumo come un turco.
La sera prendo quindici gocce di fiori di Bach prima di andare a dormire. Lo so che sarebbe lo stesso se mi versassi quindici gocce di acqua fresca su per il naso, ma ho questa convinzione che mi aiutino a dormire, e le convinzioni sono importanti. Se non lo so io, che studio Medicina.
Sono andato fuori corso con gli esami, ormai irreparabilmente. Fino a qualche tempo fa mi affannavo a cercare di studiare, andavo agli appelli, li bocciavo sistematicamente uno dietro l’altro. Poi gli amici hanno iniziato a laurearsi, a convivere, a trasferirsi. A pensare all’esame di stato, ai concorsi per la specialistica e al matrimonio, mentre io sono ancora qui, e così, piano piano, ci ho rinunciato. Ora non ricordo qual è stato l’ultimo esame che ho fallito. Non ci provo più, non studio, me ne vado a correre o a prendere sbronze o a scopare con la prima che incontro e l’ansia è sparita, non vado più a dormire pensando di essere un fallito totale. So di esserlo. Tutto sommato, sono infelice.
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Clicca qua per la seconda parte: Suite.
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Foto di copertina di Andrea Piccin.
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Si muore sempre un po’ quando si legge un racconto di Eulalia.
Attendo il Secondo Movimento.