Alfabeto ESPERIMENTI LETTERARI

Alfabeto – Parte I – D come Doveri

Scritto da Noise

Se quella che sta per cominciare fosse semplicemente una storia, sarebbe semplice spiegare di cosa si tratta. Ma questo è un viaggio da una costa all’altra attraverso le 21 lettere dell’alfabeto. Un viaggio diviso in tre parti, ogni parte “conta” sette lettere.

In fin dei conti è uno schema, un adattamento a uno stile di vita: la paura di non riuscire più a mettere un piede dopo l’altro.

Alfabeto

Parte I – Partenza

D come Doveri

 

A mio padre venne un infarto mentre guidava. Morì sul colpo. Non mi è mai stato chiaro se il cuore gli si fosse fermato per l’infarto o per l’incidente. Mamma, d’estate, mandava me e mio fratello da alcuni zii. D’inverno lavorava di mattina, quando noi eravamo a scuola, ma d’estate lavorava tutta la giornata. Per arrivare a casa degli zii dovevamo cambiare due volte l’autobus e prendere la metropolitana. Camminavamo da soli per la città e gli zii ci lasciavano giocare con gli altri bambini del quartiere senza affacciarsi ogni quarto d’ora, come faceva mamma, per sapere se avevamo sudato o se avevamo fame.

Vicino a casa degli zii un signore creava miniature. Ogni mezzo meccanico che vedeva doveva rimpicciolirlo e la cosa più incredibile è che quelle biciclette, quelle giostre, quei trattori funzionavano davvero. La cosa che mi lasciava sempre a occhi aperti erano i minuscoli quadratini di fieno che uscivano dalla piccola imballatrice che aveva costruito.

Uno dei bambini che era nel nostro gruppo di gioco era suo nipote. I miei zii mi dissero che non dovevo dargli troppa corda perché era sempre in ritardo. Quando poi capii cosa intendevano non ho potuto fare a meno di provare un forte senso di vergogna per loro. Sergio, così si chiamava quel ragazzino, si vedeva da subito che era diverso rispetto a noi. Indossava sempre magliette nuove e sgargianti. Arrivava sempre a un orario preciso, potevi scommetterci quanto volevi non sarebbe arrivato né un minuto prima, né un minuto dopo delle nove e ventitré. Un giorno, mentre facevamo una gara con le macchinine, una di queste fu investita da un’auto vera e Sergio disse che suo nonno poteva aggiustarla perché era lui a costruirle e quindi poteva anche aggiustarle. Noi tutti nell’ingenuità dell’infanzia e presi dall’euforia della possibilità di incontrare un creatore di giocattoli gli credemmo. Noi lo seguimmo fino all’officina di suo nonno e quando questi ci mostrò le biciclette, i motorini, i trattori e tutti i modellini che aveva già costruito ci brillarono gli occhi. Eravamo una quindicina e cominciammo a fargli domande da ogni lato della sua officina su come aveva costruito questo o di dove aveva trovato un pezzo di quello e quando ci diceva che l’aveva fuso da un pezzo di piombo più grande, noi eravamo ancora più esterrefatti. Per educazione lo chiamavamo signore e lui, con fare paterno, ci disse di chiamarlo Sergio. Quando cominciarono a volare un indefinito numero di Sergio, il nipote che si chiamava come lui e che finora era rimasto in disparte come un pittore che in silenzio guarda la folla radunarsi davanti alla sua opera migliore, cominciò a girarsi verso di noi a chiederci “Che c’è?” e noi dicevamo “Non tu, tuo nonno”. All’ennesimo scambio di persone non voluto il nostro compagno di giochi sbottò.

“Io sono Sergio, lui si chiama nonno!”

Noi lo guardammo a bocca aperta, era la prima volta che ci urlava contro qualcosa. Poi suo nonno cominciò a ridere, poco dopo alcuni di noi cominciarono a ridere con lui, in breve la risata contagiò tutti i presenti in quella cantina adattata a laboratorio artigianale .

Da quel momento in poi, il nonno di Sergio diventò il nonno di tutti noi.

Sono sempre stato così, fin da piccolo ho conservato le persone che ho incontrato, anche per sbaglio, anche quando non avrei voluto. Mi sono sempre restate impresse le loro storie quando riuscivo a spiarle.

È stata l’esigenza di immedesimarmi nelle vite altrui che mi spinse a diventare un giornalista, non riuscivo a fare a meno di concentrarmi più sugli altri che su me stesso. Le cose peggiorarono quando cominciai ad accontentarmi e ad abituarmi, a darmi dalle pause, a riposarmi, a smettere di chiedere ancora a me stesso e agli altri. L’abitudine mi costringeva a vivere sempre le solite giornate. Sveglia, caffè, giacca, cravatta, saluto veloce a Felicita e poi in macchina per un’ora e mezzo, per arrivare alle otto precise al giornale. Ogni giorno la stessa storia, la stessa solfa e non mi lamentavo perché in fondo sapevo che non avrei potuto avere di più. Le mattinate passavano senza tante rogne nei periodi di magra e quel giorno era un mercoledì qualsiasi in un lungo periodo di magra.

Vicino al giornale c’era un ristorante convenzionato come mensa e spesso mi ritrovavo lì con i miei colleghi. Pur di non socializzare mi portavo gli appunti di futuri articoli e fra una cucchiaiata e l’altra di riso insipido, era l’unica commestibile che avevano, li sistemavo.

C’era una cameriera carina che lavorava lì e il simpaticone del giornale, un certo Pazzini, cercava sempre di trovarsi fra i tavoli serviti da lei. Si credeva un tipo alla moda, con la sigaretta a portata di mano e una serie di barzellette nuove da raccontare. Pazzini sintetizzava tutto l’odio che si può provare per una sola persona.

Era borioso, pieno di sé, già la sua figura dava fastidio al mio sguardo.

Era viscido e non solo per come si comportava, aveva sempre un velo di sudore che lo ricopriva, soprattutto sulle mani. Era uno di quei soggetti con la battuta sempre pronta e che ne rideva a bocca aperta, compiacendosi di se stesso.

Quel giorno era assieme a un tipo strano: pelato, occhiali scuri, piccoli e a specchio.

L’unica cosa che lo differenziava da un naziskin era il fatto che indossava giacca e cravatta. Finirono le sigarette fuori e poi entrarono.
“E i russi usano la matita!” Urlò al tipo che si portava dietro facendo attenzione a farsi sentire da tutto il ristorante, risate comprese.

Odiavo Pazzini quando respirava, figurarsi quando rideva o raccontava barzellette che non mi facevano ridere.

Prima di sedersi, mi sorrise e mi fece un saluto tipo quello che si scambiano i militari.

Gli risposi con un falso sorriso e ritornai al mio block notes in cui stavo scrivendo l’articolo sul nuovo piano urbanistico della città.

Ero l’unico in grado di decifrare la mia scrittura, quindi ero l’unico che poteva passare a macchina gli articoli che scrivevo per poi passarli alle rotative in tipografia.

Quindi cos’è questa nuova divisione a zone proposta dalla nuova amministrazione?”

Mi girai di soprassalto, qualcuno era stato in grado di leggere dai miei appunti. Era la cameriera preferita di Pazzini, aveva una sguardo incuriosito e guardando la sorpresa che mi si disegnò in faccia rise dolcemente. Non era bella, però aveva un fascino innegabile. Gli occhi erano scuri come la notte, una bocca sottile, era di altezza media, con capelli fluenti lisci e scuri che le cadevano sulle spalle.

Lei si sedette di fronte a me approfittando della sedia libera e cominciammo a parlare del mio articolo. Con la coda dell’occhio vedevo Pazzini che guardava sempre più incuriosito verso di noi.

Mi piaceva parlare con lei, sembrava davvero interessata a quello che stavo scrivendo, poi lei mi disse che alle otto staccava e se mi andava di continuare il discorso davanti a un aperitivo.

Il silenzio scese fra di noi, non sapendo che fare, continuai a guardarla negli occhi e poggiai le mani sul tavolo emettendo un sonoro sospiro, lei confuse la mia resa con un gesto d’avvicinamento, infatti, prese le mie mani e strinse forte.

“Scusami, forse hai frainteso il mio atteggiamento, ma io sto per sposarmi.”

Le sue guance avvamparono, lei scattò in piedi e corse nel retro del locale.

Io finii il riso, che sentii ancora più insapore del solito, bevvi un bicchiere d’acqua e andai a pagare. Logicamente trovai lei alla cassa, si mosse da dietro il bancone e si avvicinò a me. Io ero pietrificato. Mi afferrò per il collo della camicia e mi avvicinò a se.

“Ho deciso che non mi interessa.” Mi sussurrò all’orecchio e mi baciò impetuosamente.

La staccai da me e lei mise nel mio taschino un pezzo di carta.

Imbambolato lo aprii, dentro c’era scritto “Se cambi idea” seguito da un numero di telefono. In un secondo realizzai.

Andai al tavolo dov’era seduto Pazzini e gli mostrai il biglietto scritto da lei.

“Cos’è?”

“Il suo numero di telefono.”

Dissi puntando lo sguardo verso la cameriera.

“E chi me lo dice che non ti stai inventando tutto?”

“Non hai visto che mi ha baciato?”

“E chi me lo assicura che non era finto?”

“Fammi accendere.”

Pazzini ancora stupito mise la mano nell’interno della giacca e mi diede l’accendino, io lo presi e detti fuoco al pezzo di carta che lei mi aveva dato, lo tenni per due dita e poi lo lasciai bruciare nel posa cenere.

Pazzini e il suo amico mi guardavano a occhi sbarrati.
“Non lo saprai mai.”
Li lasciai entrambi di stucco e ritornai al giornale.

Quando divenni caporedattore, resi la vita impossibile a Pazzini, quasi lo costrinsi a lavorare per un altro giornale e non seppi più nulla di lui. Quel giorno appena fui di nuovo nel mio ufficio, chiamai a casa, Felicita rispose quasi subito e le dissi quanto la amavo. Quella fu l’unica volta che la tradii.

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Clicca qua per il quinto capitolo: E come Entrare.

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P.S. L’immagine in copertina è un’opera di street art che si trova ad Alzaia Naviglio Grande (MI)

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Sono Noise, il rumore. Sono il battito del cuore e l'affanno del respiro. Sono il ticchettio che ti tiene sveglio la notte. Sono il ronzio che ti perseguita assieme all'afa estiva. Sono il disturbo di frequenza mentre cerchi la tua stazione radio preferita. Sono i tuoi passi che battono sull'asfalto quando vuoi stare da solo. Il rumore ha un colore e una voce, la mia.
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