Se quella che sta per cominciare fosse semplicemente una storia, sarebbe semplice spiegare di cosa si tratta. Ma questo è un viaggio da una costa all’altra attraverso le 21 lettere dell’alfabeto. Un viaggio diviso in tre parti, ogni parte “conta” sette lettere.
In fin dei conti è uno schema, un adattamento a uno stile di vita: la paura di non riuscire più a mettere un piede dopo l’altro.
Alfabeto
Parte I – Partenza
C come Capperi
Non ho mai avuto molta immaginazione, però ho sempre cercato di compensare questa mia mancanza osservando ciò che mi sta attorno: dietro la casa in cui abitavo c’era una piantagione di capperi, ormai quasi selvatica. Era invece costata tanta fatica a mia nonna: si costringeva a recuperarli e lì dove qualche seme era caduto una pianta era cresciuta per sbaglio. Mi ricordai tutti i passi per sperdute vie di montagne, ogni scalino ottenuto dalla nuda pietra, io e lei da soli per recuperare un pugno di quelli che erano di tutt’altra specie, recuperarli in particolari muri di pietre che sembravano sostenuti dalle sole radici di quelle pianticelle mezze fiorite. Quando misi piede sul traghetto che mi avrebbe portato sull’isola, mi resi conto di aver portato con me cose che altri avrebbero reputato inutili e, in effetti, non erano proprio le cose che uno si porta dietro durante un trasloco, ma la sopravvivenza era l’unica cosa che cercavo sull’isola, non la comodità.
Riprendere quei passi coincise col perdermi nella memoria di quando quegli stessi passi li compievo saltellando da una pietra all’altra. Completamente inconscio del peso che poi mi avrebbe obbligato a tenere il capo basso quando li avrei ripresi anni dopo. Non era il dolore, ma la consapevolezza a obbligarmi in quel giogo. La consapevolezza di non poter mangiare subito i capperi, ma attendere che il sale e il sole li cuocessero. Sull’isola ogni cosa aveva i suoi tempi e io dovevo praticare una continua osmosi per farli coincidere i miei. I capperi avevano il loro, io dovevo rispettarlo e aspettare il mio per cucinarli con un filo di pomodori e condirlo con dell’olio preso in una bottega.
Poi, all’assaggio, scoprii l’esistenza di una memoria sensoriale sul palato della mia bocca. Ogni movimento che la mia lingua faceva per accompagnare il masticato alla trachea, mi lasciava esterrefatto per la quantità di ricordi che quei boccioli aromatici si trascinavano con loro lungo l’esofago. Dopo il primo boccone dovetti fermarmi per riprendere fiato, vedevo chiaramente una massa informe di persone, fatti, avvenimenti che si mescolavano fra di loro come a volermi consigliare che stavo facendo la cosa giusta, che i ricordi sono all’interno di una scatola che ogni tanto bisogna riaprire per riprendere i propri passi.
Quando posai la forchetta accanto al piatto vuoto mi fu chiara la caparbietà di mia nonna, la sua costante ricerca era rivolta non ai capperi, ma ai ricordi che le avrebbero potuto scatenare. Non potei fare a meno di chiedermi quale ricordo lei avesse cercato così ostinatamente.
Presi i piatti, li misi nell’acquaio, ci feci scorrere un po’ d’acqua sopra e decisi che avrei finito di lavarli in un secondo momento, mi concessi la seconda sigaretta della giornata. L’accesi con un fiammifero e mi sedetti sul divano. Dopo ogni boccata sentivo la testa sempre più leggera e le palpebre più pesanti. Chiusi gli occhi con la testa appoggiata al testata del divano, cercando di riprendere il filo dei ricordi rivissuti durante il pranzo. Quando la sigaretta finì spensi quel che mi restava fra le dita nel posacenere più vicino.
Crollai.
Mi trovo davanti all’entrata di un ristorante cinese entro e funziona che si va lì e si mangia è un posto in cui quasi tutti mi trattano male tranne il vecchio proprietario al quale ogni tanto porto un paio di litri di vino e quindi gli sto simpatico però faccio una cazzata mi prendo l’ultimo pezzo di tonno e il figlio del proprietario s’incazza e mi dice che quello era un pezzo pregiato e che devo pagare cento “Io non li ho mai avuti nella vita cento” gli rispondo. Quindi aspetto che si faccia sera e tornare nel ristorante con altri due litri di vino per il vecchio così non mi fa pagare i cento euro. Mi ritrovo davanti al ristorante cinese, ci giro attorno e mi rendo conto che è su uno strapiombo, guardo a terra e vedo le cucine del ristorante dove ci sono tronchi umani i bambini amorfi tipo con gambe giganti e vedo i camerieri del ristorante cinese uscire dalla porta principale e fra di loro c’è un’italiana così, decido di seguirli e comincia una sfida, una gara di corsa fino ad arrivare sotto a un cavalcavia dove c’è il ritrovo di una gang vinco la sfida e sono uno di loro e a quel punto torno a casa…. ah in tutto ciò mi accorgo che vivo in città e sul tram dove sto col capo della gang incontro Luca faccio le presentazioni e arrivo a casa. Anche il capo della gang scende con noi e mi rendo conto che è identico al coinquilino di Luca in realtà è il gemello e viviamo in una stanza a quattro persone io, Luca, il capo della gang e il gemello (uno capelli lunghi e barba, l’altro sbarbato) io mi rendo conto che col gemello (il coinquilino di Luca) ci ho lavorato e lui mi fa guardare in alto verso un balcone coi fili per stendere i vestiti e sui fili ci sono degli equilibristi una coppia vestita di rosso capisco che sono pompieri e un’altra di bianco, questi sono panettieri e sui fili si scambiano di posto a quel punto andiamo a dormire nella stanza a quattro che sono simile a quelle dei sommergibili e mi sveglio.
Sobbalzai e mi svegliai.
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Clicca qua per il quarto capitolo: D come Doveri.
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P.S. L’immagine in copertina è un’opera di street art che si trova ad Alzaia Naviglio Grande (MI)