La vita è ricerca.
Spesso inconcludente, in ogni caso inconclusa.
La ricerca è imprescindibile, ma è scelta. Negarsi la volontà di ricercare è un cappio alla gola della coscienza umana, ma è comunque un’azione conscia, perché ad un certo punto della vita forse a tutti pare piuttosto chiaro come la ricerca diventi piuttosto scoperta, e la scoperta diventi a sua volta coscienza del tragico, del disumano.
La risposta non può essere che la fuga, il silenzio.
Bergman in “Persona” era riuscito a rappresentare questo silenzio (tema comunque ormai presente nella cultura occidentale) e a portarlo sul piano della comunicazione: una protagonista sceglie di negarsi l’uso della parola di fronte agli orrori dell’uomo, l’altra ne è la rappresentazione e tramite il suo linguaggio veicola la profonda inutilità insita nella comunicazione di base, sostituita dall’immagine cinematografica.
La parola non esiste più, il suo contenuto è devastato dall’assurdo, la sua forma è irriconoscibile, la ricerca di cui si parlava diventa un salto nel nulla, o meglio, un salto consapevole dentro la consapevolezza del nulla.
Godard in Adieu au langage si fa portatore di un’immagine devastata, la fuga dalla narrazione è solo il primo passo per eludere le limitazioni umane, il regista tenta di devastare anche ciò che stava fuori da questo lavorando sul piano formale. L’occhio viene così spinto all’emancipazione dell’osservazione in quanto non è più possibile basarsi sulla comunicazione razionale, e qui sta la ricerca, una ricerca profondamente dolorosa, ma intimamente lucida.
Continuiamo ad aggirarci in questo labirinto di discorsi inutili, continuiamo a convincerci che qualcosa sia veramente importante, ma in fondo impariamo davvero da tutto ciò che non viene detto.
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La fotografia utilizzata come copertina è stata realizzata da Alessandro Gentili
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