Calliope
Autore: Nathan Zane
Ciao a tutti, mi chiamo Natale, se state leggendo questo significa che finalmente ho terminato Il racconto.
No, non è un errore di battitura, io non faccio mai errori, quella “i” è in maiuscolo perché questo che state per leggere sarà l’archetipo del racconto, la storia perfetta, che dopo tanti anni potrò rendere pubblica. Starete sicuramente pensando che sono solo un povero stupido con un ego smisurato, no? Ma in realtà sono solo conscio delle mie capacità.
Quando decisi di iniziare a scrivere sapevo che mi avrebbe aspettato un lavoro immenso, ogni cosa doveva stare al suo posto, coerenza tra le diverse proposizioni e coesione tra ogni singola parola. Inutile dire che ci misi un’infinità solo per scrivere l’introduzione. Notti intere trascorse con il PC sulle gambe sdraiato sul letto mi sono testimoni.
Amici e parenti di tanto in tanto si facevano sentire o passavano da casa per accertarsi della mia salute, ma quando finalmente mi trasferii nella casa in montagna dei miei non ebbi più distrazioni e riuscii a scrivere le prime righe; che cancellai pochi minuti dopo.
Mi ci volle un mese per essere assolutamente sicuro che l’inizio del racconto fosse esattamente come volevo. Un mese durante il quale cominciai io stesso a dubitare della mia igiene mentale.
Iniziai ad udire strani suoni e spostamenti fuori dalla mia stanza, ma pensavo fossero causati dal vento. A volte apparivano parole nel racconto che non ricordavo di aver scritto, altre volte ne scomparivano alcune. Questi eventi continuarono finché, una notte, mi alzai per andare in bagno e vidi un’ombra con la coda dell’occhio, mi girai di scatto e cominciai a sudare freddo.
Il viso era normale, non fosse stato per il colorito incredibilmente pallido e delle piccole corna arrotondate sulla fronte. Il petto nudo era depilato, con delle cicatrici che andavano dal collo al bacino verticalmente. Le mani erano legate con delle catene dietro la schiena. Le gambe… non erano gambe, si mischiavano con l’ombra degli oggetti intorno a lui, tutt’ora non saprei dire se le avesse davvero o stesse levitando. Ma la cosa più spaventosa era la sua espressione. Avanzava verso di me facendo dondolare la testa dalla spalla sinistra a quella destra guardandomi dritto negli occhi con una specie di triste sorriso stampato in faccia.
Rimasi impietrito di fronte a lui, fino a quando non mi fu di fronte. Dovette piegare il collo per fissarmi negli occhi da quella distanza a causa dei suoi due metri (e forse più) di altezza. Ora potevo capire il perché di quel sorriso così strano. Le sue labbra erano cucite con del fil di ferro l’una all’altra e alle orecchie, arrotolate su loro stesse, rendendogli impossibile comunicare con me.
Continuò a guardarmi fisso negli occhi per un tempo infinito. Quando mosse la testa ebbi un sussulto, ma non l’istinto di fuggire. Mi accorsi che i suoi occhi indicavano il computer portatile acceso alle mie spalle. Muovendomi all’indietro per non dargli le spalle mi avvicinai al tavolo su cui era poggiato e presi il PC in mano. Era aperto un documento di word.
“Ciao”
Capii che quello era l’unico modo che quella creatura aveva per comunicare.
“Ciao” risposi “chi sei? Che vuoi?”
“Il mio aspetto può far paura, ma non voglio farti del male”
“Cosa vuoi da me allora? E chi diavolo sei?”
“Non ho un nome in realtà, ma la tua razza mi chiama alcune volte Calliope, immagino che anche tu possa chiamarmi così. Per quanto riguarda l’altra domanda, sono qui per farti una proposta. Tu vuoi scrivere il racconto perfetto, no? Io posso permetterti di farlo, se solo accetterai le mie condizioni.”
Una parte di me era ancora terrorizzata, ma quando parlò del racconto la curiosità ebbe il sopravvento.
“Quali sono queste condizioni? E chi mi assicura che non vuoi solo ingannarmi?”
“Se avessi voluto farti del male saresti già morto, no? Non immagini di cosa io sia capace. Ma piuttosto, la condizione è una sola: permettimi di abitare il tuo corpo.”
“Cosa? Stai scherzando? Come può essere possibile?”
“Avrai sicuramente sentito parlare di possessioni e stupidaggini simili, no? Funziona più o meno allo stesso modo, solo che manterrai ogni tua facoltà intellettiva e razionale. Precedo la tua domanda dicendoti che lo faccio perché non vivo da molto tempo ormai, questo stato in cui mi vedi è miserabile, è uno stato di non-vita e non-morte, perciò me ne starò semplicemente nel tuo corpo a godere delle sensazioni che provi tu e in cambio ti aiuterò a scrivere ciò che hai in mente. Non c’è nulla di male in fondo, no?”
Non riesco a spiegarmi la mia risposta, ma so che se, tornassi indietro, digiterei gli stessi identici tasti.
“Accetto.”
“Bene, non avevo dubbi, anche tu come me non sopporti la mediocrità, o tutto o niente, giusto? Per questo ho scelto proprio te. Per avermi dentro di te devi solo leggere un mio racconto, nel quale sarà contenuta una certa parola in una certa posizione ripetuta un certo numero di volte, quella parola ti permetterà di prendermi con te. Iniziamo, dunque.”
Mi svegliai nel mio letto col sole in faccia. Era solo un sogno? Scesi dal letto, tutto era al suo posto, anche il computer. Quindi decisi di sciacquarmi il viso e cominciare subito a scrivere. Percorrendo il corridoio verso il bagno un brivido mi percorse la schiena. “Sarà dovuto al sogno” pensai.
Aprii il pc e immediatamente mi gettai a capofitto nella storia, solo che non era più la MIA storia, o meglio, non era come l’avevo lasciata il giorno prima, era diversa… migliore, ed era stato aggiunto un paragrafo tutto nuovo. Non ebbi alcun dubbio su ciò che era successo, e una voce nella mia testa me ne diede conferma.
“Buongiorno, stupito del buon lavoro? Ho solo espresso a parole ciò che avevi in mente, niente male, no?”
“Che diavolo? Sei Calliope? Che cazzo ci fai nella mia mente?”
“Hai dimenticato il patto di ieri? Ovviamente no, vivo dentro di te, lo so che lo ricordi, ma a voi umani piace negare anche le cose che sapete essere vere pur di avere una vaga speranza.”
“Hai ragione, ma non è da me farlo. Ho preso la mia decisione e non me ne pento, non faccio mai errori.”
Da quel giorno parlai con Calliope molto poco, e la maggior parte delle volte era lui (o lei) a iniziare il discorso. Cominciava a riempirmi di attenzioni inutili, credevo si fosse innamorato di me, ma forse mi vedeva solo come un suo animaletto.
Continuai a vivere in tranquillità (se così si può chiamare l’avere un mostro dentro di sé) fino a quando dovetti andare a fare la spesa. Avevano assunto una nuova cassiera, era davvero carina, anzi, era proprio bella. Credo fosse il cosiddetto colpo di fulmine, i nostri occhi si incrociarono per un solo attimo, ma questo bastò per portarla a casa mia la sera stessa.
Organizzai una cenetta romantica con tanto di candela, non facemmo altro che guardarci in silenzio, sembrava non ci fosse bisogno delle parole, era tutto perfetto così com’era, e finimmo a letto insieme subito dopo cena.
Quando Aurora se ne andò Calliope mi parlò.
“Hai intenzione di rivederla ancora, per caso?”
“E a te che importa? Sei geloso?”
“Non abbiamo scritto neppure una parola oggi, volevi terminare il racconto il prima possibile, no?”
“Beh, forse non mi interessa più, ho perso troppo tempo a causa di quel file di word, ora scusa, ma sono stanco e vorrei dormire.”
Io e Aurora ci vedemmo per tutto il mese, nessun giorno escluso. Conseguentemente le lamentele di Calliope aumentarono, ma non ci facevo caso, mi importava solo della mia amata, avevo anche completamente dimenticato tutto l’impegno messo in quel racconto.
“Devi smettere di vedere quella sgualdrina, ci sta facendo perdere tempo prezioso, avevamo un patto, ricordi?”
“Ti ho già detto che non m’importa più, se non ti va bene sei libero di andartene, fine del discorso.”
“Va bene, come vuoi tu allora… Ci penserò io.”
Il giorno dopo chiamai Aurora appena sveglio. Nessuna risposta. “Starà lavorando e non sentirà il cellulare” pensai. Le mandai un messaggio, quindi decisi di scrivere un nuovo paragrafo del racconto per accontentare Calliope, ma non trovando il pc ripiegai su una buona lettura.
Passò l’ora di pranzo e ancora niente, andai al supermercato a chiedere di lei. Mi dissero che si era assentata e non aveva neppure avvertito. Non volevo pensare a ciò che sapevo fosse successo.
Andai a casa sua. Bussai. Nulla, nessuna risposta.
“Fossi in te non insisterei, magari è occupata. Se la disturbassi si arrabbierebbe da morire, no?” ed emise una risata sarcastica a pieni polmoni.
Non mi illudevo neanche più. Sfondai la porta e trovai le due cose che avevo cercato quel giorno.
La RAM del mio portatile aveva trovato un confortevole giaciglio nei bulbi oculari di Aurora, i suoi occhi erano posizionati in gola, uno sopra l’altro, ed erano visibili grazie ad un enorme taglio che andava dal mento al petto. Piantati nei polmoni c’erano il processore e la scheda video, nel fegato un centinaio di schegge del vetro che formavano lo schermo. Nelle ginocchia erano avvitate tutte le viti che un tempo tenevano insieme il computer. I tendini di Achille erano stati tagliati ed i tasti della tastiera erano stati inseriti a forza su per il polpaccio. Andava a completare l’opera il mio vomito, che non riuscii a trattenere appena vidi quello scempio.
“Te l’avevo detto che dovevi smettere di vederla, avresti potuto evitarlo. Oh, a proposito, ci tengo a dirti due cose. Prima di tutto avrai notato che niente di ciò che le è stato fatto è mortale di per sé, perciò voglio sottolineare che è morta dissanguata dopo alcune ore e dopo aver subito tutte quelle torture. La seconda cosa è che faresti bene a prendere quel coltello e ogni altra parte del pc e portarli il più lontano da qui. Io non ho un corpo mio, ma posso prendere il controllo del tuo mentre dormi, perciò…”
Non mi arrabbiai, non gli inveii contro, non avevo la forza di fare nulla, raccolsi solo ciò che aveva detto e andai a gettare il tutto nel lago. In seguito tornai a casa e dormii per 15 ore filate. Sognai Aurora. Tentava di dirmi qualcosa: “Ripeti… la risposta è… ripetizione”, ma non capivo cosa significasse.
Non appena mi svegliai mi accolse Calliope.
“Ben svegliato, fatti bei sogni? L’hard disk del tuo computer è salvo, collegalo al pc fisso e continuiamo a scrivere, ora nessuno ci disturberà.”
“Non scriverò più nulla”
“Come?”
“Non scriverò più nulla, ho detto. E non voglio più avere nulla a che fare con te”
Presi delle forbici in mano e me le puntai alla gola.
“Va’ via, non farti più vedere o sentire, altrimenti mi uccido! Cosa accadrebbe se lo facessi dato che vivi dentro di me? A me non importa più di vivere! E a te?!”
“È così che la metti? Mi sembra inutile continuare allora, sei determinato a essere un fallito, non raggiungerai mai la perfezione che desideri con le tue sole forze, ma sappi che non puoi liberarti di me così facilmente, uscirò dalla tua mente, ma non dalla tua vita. Addio.”
Finalmente. Finalmente ero libero. Era come se mi fossi liberato di un peso di una tonnellata. Mi rimisi a letto e dormii per altre 12 ore. Feci lo stesso sogno di qualche ora prima, Aurora tentava di parlarmi: “Ripeti… la risposta… il… racconto… tredici…” Sembrava reale. Volevo che fosse reale.
Passarono i giorni. Giorni vuoti senza Aurora. Giorni in cui il sole non tramontava e non sorgeva. Giorni durante i quali il tempo non passava, o passava in un lampo. Giorni in cui i sensi di colpa mi laceravano da dentro e in cui sognavo sempre la stessa persona che mi ripeteva sempre le stesse frasi.
Quando i sensi di colpa si attenuarono tornò Calliope. Non che mi desse fastidio il suo vero aspetto, mi ci ero abituato a stare con lui. Mi dava fastidio vederlo ancora dopo che mi aveva rovinato la vita. Inoltre non faceva nulla, stava lì a fissarmi e basta, avrei voluto colpirlo o lanciargli qualcosa addosso, ma quando ci provavo spariva improvvisamente.
Continuò ad apparire e sparire per settimane, finché un giorno mi svegliai legato a una sedia in una stanza illuminata solo da una piccola lampadina. Davanti a me era in piedi Luca, il proprietario del supermercato dove lavorava Aurora. Mi salutò.
“Ciao, tutto bene? Spero di non averti fatto del male durante il trasporto, vorrei tenerti vivo ancora per un po’”
“Che vuoi dire? Perché mi hai fatto questo? C’entri qualcosa con Calliope e Aurora?!”
“Oh scusa, non mi sono presentato, colpa dell’abitudine. Io sono Calliope, questo povero idiota ha creduto che cedendomi il suo corpo per sempre avrebbe raggiunto un nuovo stadio dell’evoluzione umana, ora posso fare ciò che voglio, e per prima cosa ho pensato a te, dovresti essere contento, no?”
“Cosa vuoi farmi? Non m’importa morire, te l’ho già detto.”
“Sono stato dentro di te, so che non t’importa morire, ma so anche che hai un’incredibile paura di essere torturato come è successo alla tua amata Aurora, no?”
Mi tornò in mente lo stato di Aurora, la paura che provai in quel momento. Cominciai ad agitarmi tentando di liberarmi. Inutilmente, purtroppo.
“Non riuscirai a liberarti, ormai sei mio”
Iniziò a torturarmi. Lentamente. Molto lentamente.
Cominciò squartando le mie carni sul petto e sulla pancia, creando un fascio di cicatrici parallele dalle quali colavano sangue e lacrime. Dopo ogni cicatrice rimaneva a fissarmi negli occhi passandosi la lingua sulle labbra e sorridendo. Quando completò la rete di squarci sul mio corpo prese del sale, lo mise su un ferro appuntito rovente e lo passò delicatamente sulle cicatrici fino a farle chiudere completamente.
Urlai con tutte le forze, lo scongiurai di smettere, ma non servì a nulla.
Prese il ferro rovente e me lo infilò in bocca, infilzandomi la lingua e strappandola di netto con un colpo secco.
Volevo morire.
Raccolse da terra del fil di ferro e, lentamente, mi cucì le labbra, mentre continuavo a dimenarmi. Cucitura dopo cucitura il dolore aumentava, mentre continuava a guardarmi fisso negli occhi e a sorridere. Finito con le labbra, mi infilò del filo spinato dentro le orecchie fino a bucarmi i timpani e lo legò al fil di ferro che avevo in bocca.
Poi mi liberò le mani dalle corde, ma non avevo la forza né la volontà di scappare, ormai ero alla mercé di quel mostro. Sangue colava dalle mie orecchie e dalla bocca, e insieme a quel sangue, le ultime rapprese gocce di speranza.
Vidi delle catene a forma di manette, con degli aghi appuntiti indirizzati verso l’interno, dove avrebbero dovuto esserci i miei polsi. Piansi più forte di prima.
Sentii quegli aghi penetrarmi la pelle, farsi strada lentamente nella carne, e infine bucare le ossa fino a diventare un tutt’uno con me.
Si prese un attimo di pausa, ed io sperai avesse finito, ma ormai avevo capito cosa voleva fare e non poteva aver finito, sapevo che la parte più brutta doveva ancora arrivare.
Raccolse dal buio della stanza una sega elettrica e si avvicinò a passo lento, esattamente come la prima volta che si presentò a casa mia.
Testa a destra… Testa a sinistra…
Un movimento quasi ipnotico, mi distrasse per un attimo dalla mia sorte e regalò un po’ di lucidità alla mia mente. “Perché mi accade tutto ciò? Volevo solo scrivere un racconto perfetto. Sono stato troppo ambizioso? Dio mi ha forse punito per la mia superbia? E se così fosse dovrebbe perdonarmi, no? Oppure è quest’essere di fronte a me Dio?”
Non ci ho mai neanche creduto in Dio, ma è incredibile a cosa faccia pensare il terrore.
Passo dopo passo Calliope era più vicino, quando mancavano pochi metri non resistetti più e svenni.
Mi apparve Aurora. “…risposta… è… ripetizione. Cerca… tredici… ripeti”
“MMMMMMMMMMHHHHHHHH”
Tentai di urlare, ma dalla mia bocca uscì solo un grugnito. Calliope aveva cominciato il suo ultimo lavoro, stava cominciando dalle dita dei piedi, le segava una per una.
“Ripeti…”
Poi toccò ai piedi, li tagliò completamente, facendo cicatrizzare le ferite con il ferro arroventato. Voleva continuare così fino ad amputarmi completamente le gambe.
“Ricorda…”
Tagliò all’altezza dei polpacci. Provai ad urlare fino a sentire il sangue in bocca.
“Parole…”
Salì più su. Prima tagliò via le rotule verticalmente, poi recise con un sol colpo tutta la parte delle gambe che sta sotto le ginocchia.
“Sei… in tempo…”
Non capivo come riuscissi a vivere in quello stato, immagino fosse opera di Calliope, voleva farmi soffrire il più possibile.
“Puoi… liberarti…”
Tagliò verticalmente la carne delle cosce, e la strappò via come fosse un regalo da scartare. Infine strappò via anche le ossa tirandole verso l’esterno e tamponò l’enorme ferita con il pezzo di ferro arroventato, ancora una volta.
Mi rese uguale a lui. O quasi.
Raccolse da terra dei pezzi di ossa.
Li prese in mano.
Li soppesò.
E infine me li incastonò in testa, rompendomi il cranio e rendendomi finalmente uguale a lui.
Ora, vi starete chiedendo come e perché io abbia scritto questo, no?
Dovrei essere morto, mi sarebbe impossibile scrivere tutto ciò.
Ma magari la risposta è nelle ripetizioni…
No?
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Autore: Nathan Zane
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