Racconti di un Erasmus. Parte III: Italiani, brava gente
La Germania non finisce mai di stupire. Mi avevano detto che Stoccarda era una città piccola, che fondamentalmente non c’era niente da fare, eppure ogni giorno riesco a stupirmi con qualcosa di nuovo. In pieno centro città c’è un parco molto grande, dove appena arriva la bella stagione la gente si rilassa con in mano un bicchiere di birra. Il campus universitario è come un piccolo villaggio indipendente. Molti capiscono l’inglese, ma non tutti lo parlano.
E gli italiani hanno nel mondo un’immagine più che rinomata.
A quanto pare, la si deve a Peter Griffin e all’episodio di Family Guy in cui cerca di parlare italiano.
«Ishiki, hai davvero un inglese ottimo, ma santo cielo, un accento terribile!»
«Babidibubidi?»
«Quando voi italiani parlate, non capiamo mai se siete arrabbiati o avete fame. E quando ordinate una birra, non capiamo se volete una birra, un orso o un uccello»
«Mi spieghi perché aggiungi una vocale alla fine di ogni parola?»
«Ah, voi italiani, sempre in ritardo!»
«Ma è vero che mangiate pasta tutti i giorni?»
«Mafia e mandolino!»
«E però, c’è da dire che le ragazze italiane…»
Mentre i miei stereotipi sulla Germania cadono completamente, ogni giorno mi capita di sentire commenti di questo tipo. Mentre mi rendo conto che per conoscere veramente un popolo bisogna viverci insieme ed identificarsi con lui, trovo sempre più spesso chi sputa sentenze sull’Italia. La prima volta rido, ma continuare ad ascoltare le stesse battute dopo un mese comincia ad essere sfiancante. Nel mentre, ogni giorno sento parlare italiano in autobus, per le strade e nei locali. Gli italiani sono veramente dappertutto. Non è per patriottismo quando dico che sono convinta che gli italiani prima o poi conquisteranno il mondo. Insieme ai piccioni.
Chi si diverte di più a scherzare, piazzandomi battute e scherzi che ormai sanno di vecchio, è Roland, un compagno del corso di lingua che sto frequentando all’università. Roland è venezuelano e ama particolarmente il gentil sesso, così come divertirsi facendo battute sull’Italia.
«Hey, italian accent! How are you today?»
«Tutto bene, Roland, grazie! E tu?»
«Bene, prima che tu cominciassi a parlare!»
Molto bene. È lunedì mattina e già ho i nervi a fior di pelle. Roland sta superando se stesso.
«Daaaaaai, mica ti sarai offesa! Tanto voi italiani date immediatamente confidenza a tutti, se non possiamo scherzare con voi non lo possiamo fare con nessuno!».
Abbozzo un sorriso tirato e prendo posto, mentre l’insegnante entra in classe e comincia a parlare in tedesco.
Quando arriva il mio turno di leggere e parlare, riesco già a sentire Roland ridacchiare dall’altra parte dell’aula.
«Wir-e gehen-ne nach-e Berlin-e» mi scimmiotta. Lo guardo, sperando che riesca a cogliere il messaggio nei miei occhi gelidi.
Hai quasi venticinque anni e lui ne ha più di trenta, anche se ha l’umorismo di un ragazzino. Puoi anche permetterti di non ascoltarlo, mi ammonisco silenziosamente.
Funziona. Nelle mie orecchie la voce di Roland viene sostituita da un ronzio simile al rumore di una zanzara e riesco a continuare la lettura senza troppi problemi.
Un oggetto volante non meglio identificato plana direttamente sulla mia spalla. Mi chino per raccoglierlo: è una pallina di carta. Alzo lo sguardo verso la classe: sono tutti serissimi e concentrati sui loro appunti, ma posso ben immaginare da che direzione arrivi.
Benissimo, sono tornata alle scuole medie a quanto pare.
In ogni caso, è proprio vero: la differenza di comportamento per quanto riguarda gli italiani è fortissima. Ovviamente il tutto dipende da persona a persona, ma noi siamo particolarmente indirizzati verso un’immediata confidenza. Ridiamo, scherziamo, e facciamo immediatamente in modo che l’altra persona diventi parte di noi.
E poi si, effettivamente mangiamo tantissima pasta, chiamiamo molto spesso la nostra famiglia, ci arrabbiamo un sacco quando vediamo qualcuno che lava i piatti senza poi sciacquarli e ci chiediamo ancora come facciano all’estero a sopravvivere senza bidet.
È l’ora di pranzo, e il tempo stoccardese è stranamente mite. Dopo le tempeste di neve dei primi giorni, il meteo sembra essersi calmato, regalando giornate tiepide e soleggiate. Sto ammirando la chiesa davanti all’edificio dell’università, che svetta alta nel cielo, contrastando con la luce arancione del tramonto.
Mentre sgranocchio il mio sandwich, chiacchierando amabilmente con gli altri ragazzi, Roland mi si avvicina. In mano ha qualcosa di molto simile a un cartone della pizza.
«Guarda qua! Mangio italiano!» mi dice ridendo.
Solleva il coperchio, e posso ammirare in tutta la sua bellezza una pizza farcita con salame, peperoni verdi e ananas. Gli faccio l’occhiolino e sollevo il pollice.
Ananas sulla pizza. Mi chiedo a chi sia venuta per prima questa idea.
Non ammetterò mai che in realtà un po’ mi piace.
Restituisco alla pizza un’occhiata dubbiosa. È calda, fumante, e, a parte l’inquietudine di ananas e peperoni, non ha per nulla un brutto aspetto. Perfettamente tonda. Se non fosse che a nessuno è venuto in mente di tagliarla a fette.
Roland deve aver fatto il mio stesso pensiero, dal momento che non ha ancora attaccato a mangiare il capolavoro. Piega la testa da una parte e si gratta la testa, riflettendo sul da farsi. Prova a piegare la pizza in quattro, ma non c’è nulla da fare: il quarto di cerchio ripieno di formaggio è diventato altissimo e non più addentabile. Provo a spiegargli di chiuderla come se fosse una piadina, senza rendermi genialmente conto che la mia idea qui non ha senso. Alla fine, Roland giunge al verdetto: trattiene il centro con due dita e accartoccia tutto il resto, quasi la pizza fosse un kebab.
«Scusami. Lo so che mentre mi guardi, una parte di te lentamente muore» mi sorride Roland.
Non avrebbe potuto trovare parole migliori per descrivere quello che sto provando. Aggiungendoci un brivido lungo la schiena al pensiero della quantità di formaggio indefinito che sta per colare fuori dall’enorme pizza.
Roland comincia a mangiare a grandi morsi, addentando la crosta dalla parvenza gommosa. È solo questione di tempo, prima che tutto ciò che ha in mano esploda.
Ogni grande catastrofe si manifesta inizialmente da piccoli segnali, che non tutti colgono e che spesso non preavvisano ciò che di temibile sta per accadere. Piccole gocce d’olio cominciano a scorrere lentamente lungo il bordo bruciacchiato del trionfo di pomodoro e mozzarella.
Lento e inesorabile, il contenuto della pizza comincia pian piano a uscire dal fondo, troppo sottile per riuscire a trattenere la mastodontica quantità di ingredienti. Vedendo le nostre facce, Roland comincia a preoccuparsi di ciò che potrebbe accadere: afferra il cartone e si siede per terra, cercando di contenere il flusso di cibo in caduta libera dalle sue mani. Ormai il cartone è inzuppato di olio, mentre ciò che rimane dei peperoni si divide tra le mani del povero Roland e il marciapiede.
Il mio sfortunato compagno non sa più che pesci pigliare. La gente che passa lo guarda ridacchiando mentre gli altri studenti gli lanciano monetine nel contenitore della pizza.
«Lascia stare» gli consiglio io sorridendo. «La settimana prossima vieni a cena da me e ti faccio io una pizza vera, sempre che riesca a trovare gli ingredienti».
Roland si rialza. Gli tendo un pacchetto di kleenex, con cui comincia a ripulirsi. Mi guarda sornione di sottecchi.
«Mi stai invitando una sera a casa tua, come devo considerare questa cosa?».
Sospiro. «È una pizza, Roland, solo una pizza. Non ti far mandare in crisi una seconda volta!».
«E vada per la cena! Ma occhio, Ishiki, ormai ti ho capita!».
«Ci conosciamo da una settimana e credi di avermi già inquadrata?».
«Ovviamente. Sei italiana!».
Roland si scosta per schivare un peperone superstite che stava centrando la sua testa. Gli faccio l’occhiolino e comincio a camminare per tornare in classe. Certi stereotipi sono proprio duri a morire.
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