“Cronache di uno studente fuorisede” è, fra le altre cose, un esperimento narrativo. La scrittura non è lineare, le frasi sottolineate indicano i pensieri che mi son balenati in testa, quelle in grassetto sono relative alla mia parte razionale e quelle in corsivo alla mia parte emotiva. Il risultato potrebbe sembrare strano e un po’ schizofrenico. Beh, lo è.
Continua la saga di Daniela, la coinquilina che tutti (non) vorrebbero. Leggi qui la parte II.
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Parte III – Uscire con Daniela
Le mie giornate da studente proseguono tranquille, le lezioni mi portano via la mattina e lo studio il pomeriggio. La sera, d’altro canto, esco con le ragazze inglesi e con alcune loro amiche che ho conosciuto. Questa amicizia ha portato a più conoscenze del previsto.
Nel giro di qualche settimana ho conosciuto quattro ragazze americane, due ragazze danesi, quattro ragazzi tedeschi, un ragazzo e una ragazza ungheresi, una ragazza austriaca e un’altra ragazza svedese.
Sono a Padova da un mesetto e conosco solo ragazzi erasmus. Padovani neanche a parlarne.
Le mie serate non possono essere, però, tutte alcol, musica e divertimento, perchè con me vive una demone giapponese di nome Daniela.
Daniela non conosce nessuno e vuole uscire con me tenendo a specificare: “Solo come coinquilini e buoni amici.”
“Già non ti accetto come coinquilina, figuriamoci come amica.”
“Per non parlare del ‘buona’…”
Dopo una settimana di scuse assurde del tipo:
“Usciamo stasera?”
“Nah, stasera non esco perchè domattina ho lezione.”
“A che ora?”
“Alle dieci.”
Oppure: “Preferirei riposare perchè sono un po’ stanco.”
“E dove stai andando adesso?”
“A correre.”
Decido infine di cedere: “Okay, va bene. Facciamo un cinema?”
“Siiiiihhh!!”
Cerchiamo gli orari dei cinema nei paraggi, andremo a vedere “Tutta colpa di Freud”. Non sarà niente di che, ma con l’intelletto di Daniela non potevo aspirare certo ad un film di Jodorowsky.
Il film inizia in un cinema lì vicino alle otto.
“Bene, allora partiamo alle otto meno un quarto, okay?”
“Oh mamma! Di già?!? Corro a prepararmi.”
Sono appena le sei meno cinque.
Mentre nel giro di un’ora e mezza si cambia tre volte il trucco, quattro l’abbinamento di vestito (riuscendo incredibilmente a trovare combinazioni via via peggiori), chiama i genitori e il ragazzo, si mette a cantare male Pino Daniele e si prepara la cena, io uso il mio tempo conquistando imperi ad Age of Mithology per poi farmi una doccia e mangiare un barattolo di ceci negli ultimi venti minuti.
In questa ora e mezza Daniela si inzuppa di profumo ad intervalli di trecento secondi, ricordandomi così un’altra sua meravigliosa abitudine: non si lava.
Il mio personale Anubita virulento rompe tanto le scatole a tutti per le pulizie domestiche mentre, sull’altra faccia della medaglia, scopriamo che si fa la doccia solo una volta a settimana: il sabato mattina.
Lo avrei dovuto capire subito. Il giorno dopo il mio trasferimento, infatti, mi aveva chiamato in disparte dalle ragazze inglesi per sussurrarmi: “C’è una cosa che dovresti sapere riguardo Caryl e Paula…”
“Si, okay. Dimmi tutto.”
“Beh, ecco… Devo proprio dirtelo: sono un po’ strane.”
“Ti prego Dio, fà che siano bisex.”
“O anche solo etero magari…”
“Beh non è che se fossero lesbiche ci metteremmo proprio a piangere…”
“O che facciano ‘rumori sospetti’ di notte.”
“Please, God. PLEASE.”
I miei occhi si riempiono di luminosa aspettativa: “Ovvero?”
Si avvicina a me dipingendo un’espressione guardinga sul volto: “Beh vedi, si fanno la doccia tutte le mattine.”
La notizia mi colpisce come se vedessi un ciccione che entra in fumetteria: “Mh. Oh. T-tutto qua?”
“Siiih!!
La delusione del momento non mi ha fatto capire subito una cosa che sarebbe diventata evidente per le prossime settimane: Daniela è una lurida.
Ma torniamo a noi. Sono le sette e mezza e siamo tutti e due pronti, almeno così sembrerebbe.
Un secondo prima di uscire Daniela mi dice: “Aspetta! Devo fare una cosa!”
Questa ‘cosa’ consiste nel camminare per casa spostando oggetti inutilmente da un lato all’altro della casa, senza un apparente motivo o schema logico.
Rimango ad osservarla per mezz’ora, ricordandole che si sta facendo sempre più tardi, e, pur avendola davanti agli occhi, non avrei saputo dirvi cosa stesse esattamente facendo.
Non ci riuscirei.
Non lo so.
Sono ormai le otto e scendiamo per prendere le biciclette.
“Ma dai andiamo a piedi!”
“Il film è già iniziato.”
“Ma è qua vicino.”
“È qua vicino se andiamo in bici, non a piedi.”
“Si m-”
“Daniela, sai qual’è la bellezza del vivere insieme?”
“No.”
“Che cosa sono io per te?”
“I-il mio coinquilino?”
“Esatto. Non sono tuo fratello, non sono il tuo ragazzo. Io non sono nessuno. E sai questo che significa?”
“…”
“Significa che possiamo fare tutti e due quel che cazzo vogliamo. Vuoi andare a piedi? Bene. Io prendo la bici, ci vediamo lì.”
Inizia a seguirmi camminando con me verso il garage, silenziosa come un cucciolo di Shar-Pei.
Mentre io prendo le biciclette lei resta ferma lì, mandando messaggi ai genitori usando i guanti. Se avete in mente quanto possa sembrare idiota qualcuno che invia un sms con un telefono Touch-Screen usando dei guanti in lana avete già capito il 50% di Daniela.
Si lamenta: “Questo telefono non funziona.”
“No. Sei tu che hai un evidente ritardo mentale. Non è il fottuto telefono.“
Iniziamo a metterci in marcia e per tutti i 6 minuti e 50 che ci separano dal cinema Daniela si attacca al mio sistema nervoso.
“Secondo me la strada non è questa.”
“Puoi aspettare che devo inviare un messaggio ai miei?”
“Secondo me non lo sai dov’è il cinema.”
“Non mi ricordo come si va in bicicletta!”
“Ma sei proprio scuro di conoscere la strada?”
“Devo fermarmi per mettere meglio la sciarpa e i guanti.”
“Se ti fermi un attimo vado su Google Maps per controllare.”
“Anon, puoi rallentare?”
“Credo che ci siamo persi.”
“Perchè il telefono non funziona?”
“Ma sai dove stiamo andando?
Il mio fegato produce veleno e la bile mi sale in gola ad ondate.
Arriviamo finalmente al cinema, la aiuto a mettere la catena alla bicicletta perchè questa povera cloaca ambulante deve parlare al telefono con il ragazzo lamentandosi di come, incredibilmente, non riesca a mettersi i guanti, parlare al telefono, legare la bicicletta e chiudersi il giubbotto nello stesso momento. Chiudo il lucchetto e sputo un po’ di veleno in un’aiula corrodendo all’istante una piantina di violette, un ciuffo d’erba e un pezzo di cemento.
Il film è iniziato da un quarto d’ora, paghiamo i nostri biglietti e entriamo in sala.
Ci sediamo al nostro posto e Daniela si sbottona il giubbotto invadendo la sala di quel suo acre profumo a metà tra miele e boxer di un pugile.
Entrambi lasciati al sole per due giorni.
“Emisfero sinistro?”
“Dica.”
“Inviare comando di monovra divensiva 2701: respirare solo dalla bocca.”
“Agli ordini.”
Posso finalmente iniziare a vedere il film mentre una coppia dietro di noi sospira e qualcuno dai primi posti si gira per vedere chi è entrato portando con se tutto quell’odore orribile.
Provo a mimetizzarmi col sedile appiattendomi contro lo schienale.
Quando finalmente si mette a sedere scopro un altro meraviglioso difetto del mio personale Yeti schiumante: parla durante i film.
Tanto.
Ad ogni scena sente l’impellente bisogno di girare lo sguardo verso di me per raccontarmela.
“Hai visto? Sono entrati sul treno!”
“Mamma mia, si sono baciati!”
“Non mi piacciono le barbe così grosse!
“AH!! È CADUTO!!”
“Lo vedo da me che è caduto…”
“Stà zitta, Dio buono, stà zitta!!”
La coppia dietro di noi sbuffa.
Io mi nascondo un altro po’ nel sedile infossando la testa fra le spalle.
Ad un certo punto appare sullo schermo una scena lesbo. Niente di particolare, si sarà visto si e no un capezzolino, ma questo basta al nostro secchio di sudore per girarsi verso di me e sussurrarmi con un timbro di voce alla Janis Joplin sotto morfina: “Ti stai eccitando eeeeeh?!?”
La coppia dietro di noi si alza e cambia posto, qualcuno dalle prime file sibila uno: “Ssshh!!” e io, d’altro canto, divento dello stesso colore del sedile, bordeaux, grazie all’accumulo di emoglobina tossica che mi pigmenta il volto.
“Almeno ci siamo mimetizzati. Un altro piccolo sforzo e la gente crederà che parla da sola.”
La situazione continua così per un’ora e mezza e finalmente il film finisce.
Usciamo dal cinema sotto le occhiatacce di tutti mentre provo a nascondere il volto nei pesanti risvolti del cappotto di vergogna che mi si è materializzato addosso.
L’aria si è rinfrescata, il vento sferza allegro e la bestia ha ripreso a parlare al telefono con la madre mentre io slego velocemente entrambe le nostre biciclette.
Nella remota possibilità che il mio centro nervoso si sia rilassato Daniela decide di rimuovere ogni dubbio man mano che ritorniamo verso casa.
“Io ho freddo.”
“Infatti, stiamo tornando a casa” le rispondo.
“Anon? Tira tanto vento.”
“Eh già.”
“Ma fa davvero freddo eh?”
“Si.”
“Mamma mia che bell’arietta!”
“Lo so.”
“Ho freddo.”
“Mmh.”
“Ma tu non hai freddo?”
“Si.”
“E come fai a stare bene?”
“Perchè sto in silenzio.”
“Ah-ah-ah. Che simpatico che sei!”
“…”
“…”
“…”
“Hey Anon?”
*sospiro* “Dimmi Daniela…”
“Sai cosa?”
Provo ad indovinare: “Hai comprato un deodorante?”
“No. Ho freddo.”Epilogo:
Torniamo finalmente a casa, Daniela smonta dalla bicicletta: “Me la metti a posto tu, vero? Grazie! Che carino!! ” e inizia a salire le scale prima che possa risponderle. Inizio a camminare portando le due biciclette verso il retro della casa mentre
sento distintamente il collo pulsare e un’onda di lava alcalina, bollente e corrosiva salirmi in gola.
Mi fermo a qualche metro dal garage e guardo la saracinesca tendendo una mano verso di essa contraendo appena le dita. La serratura si sblocca, la maniglia ruota e, mentre socchiudo leggermente gli occhi, l’anta inizia lentamente a salire con un cupo cigolio.
Guardo le biciclette e parlo mentre piccoli sbuffi di anidride solforica scandiscono tutte le sillabe pronunciate.
“Andate”.
Iniziano a muoversi da sole, insicure, ondeggiando verso l’entrata. La superano, raggiungono un muro ricoperto di muffa e ragnatele, il cavalletto si abbassa debolmente e si appoggiano ad esso esauste.
Do un ultimo sguardo al garage contraendo la mascella: si chiude istantaneamente.
Posso finalmente andare a letto.
Apro il portone, salgo le scale, mi chiudo in camera sbattendo la porta e inizio a picchiare selvaggiamente il materasso e a mordere il cuscino come un tasso sotto cocaina.
Mi metto al letto dopo mezzora: il materasso ha vinto.
“Mai più.” Dico fra me e me.
“Mai più.”
Ahimè, ci cascherò ancora.
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Clicca qui per la parte IV: Cucine da Incubo
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[Articolo originariamente postato su Cheesusfried.com QUA]