ESPERIMENTI LETTERARI Storie

Berlino Est, 1962

Scritto da Rorschach

Berlino Est, Gennaio del 1962.

Faceva freddo quella mattina. Come ogni altra mattina da qualche mese a quella parte.
Aprì gli occhi e si rannicchiò nel letto, le gambe sollevarono leggermente l’ispida coperta di lana e uno spiffero si insinuò fra le lenzuola e le punse le gambe con dita ghiacciate.
Si mise seduta sul bordo rabbrividendo e stringendosi la coperta addosso con entrambe le mani. Lo sguardo perso nel vuoto percorreva velocemente le venature e i solchi del pavimento: era un legno vecchio e scheggiato e negli angoli macchie gialle di muffa si allargavano rendendolo molle e pericolante. La stanza era grande, circa 40 metri quadrati. In fondo, contro due muri ad angolo, era posto il letto e uno sgabello sgangherato improvvisato a comodino era al fianco. C’era un piccolo tavolo al centro della camera illuminato dalla grande finestra in ferro battuto e vetro sottile. Poggiò i piedi sul tappetino umido posto di fronte e si incamminò verso il centro della stanza. Controllò nella stufa: Rupert l’aveva accesa. Pochi carboni si illuminavano debolmente e parevano agonizzanti come un soldato ferito. Si sarebbero presto spenti: meglio iniziare a coprirsi per la giornata.
Per un attimo rivide in quei carboni la sua Berlino distrutta, le macerie, le grida e le fiamme. Gli orrori che avevano commesso che riemersero come un terribile incubo, si guardò intorno osservando la pochezza che la circondava: “Forse ce lo meritiamo.”
Fino a pochi anni fa nessuno avrebbe minimamente immaginato che lei, splendida donna tedesca e una delle migliori telegrafiste della sala comunicazione di Berlino si sarebbe ridotta in quello stato.

Si diresse verso la sedia e iniziò a coprirsi con i pochi freddi vestiti in lana sgualcita che disponeva. Quelli di Rupert erano scomparsi: si era sicuramente già diretto al lavoro. Dopo lo smantellamento delle acciaierie e delle grandi industrie il lavoro era drasticamente diminuito ed era stato fortunato a trovare un impiego come macchinista.
Quale occupazione migliore per un ex conducente di Panzer Tiger? Suo marito Rupert, uno dei migliori capocarri del glorioso Reich, insieme al mitragliere Bernd, all’artigliere Kristof e il marconista Jürgen aveva guidato il proprio Tiger nello stesso squadrone comandato dall’oberstrumführer delle Waffen S.S. Michael Wittmann. Uno dei migliori di tutto l’Asse.
“Il grande Reich ha i carri migliori”, le scriveva entusiasta suo marito. “Sciogliamo un Churchill come fosse burro. Anche sei o otto nella stessa giornata! I loro colpi non ci scalfiscono neanche e rimbalzano come palle di lana! Vedrai tesoro, presto sarà tutto finito. I tommy non sono veri soldati.”
Giorni gloriosi. Pensò all’immagine del carro che si scioglie come burro.
Burro, Dio, quanto ne avrebbe desiderato un po’ adesso.
La fame attanagliava la città con una morsa crudele e ogni giorno non faceva che serrare di più la sua presa.
Pochi legumi e pane, ancor meno formaggi e verdura. Carne? Neanche a parlarne. Solo i sovietici e pochi tedeschi facoltosi riuscivano a permettersi un simile lusso.
“Almeno siamo vivi”, questo era l’unico pensiero che la spingeva a combattere ogni mattina, che le impediva di arrendersi. Stringeva con forza i bordi del tavolo, guardava con ira i nodi marci di legno e ripeteva dolorosamente: “Almeno siamo vivi.”

Ogni giorno non poteva non ripensare al passato, a ciò che era accaduto e a quanto questo fosse tutto schifosamente doloroso da ingoiare. Gli alleati avevano vinto e, come se ciò non fosse stato sufficiente, avevano umiliato e occupato la grande Germania, spartendosela come una qualunque puttana da marciapiede.
Quei bastardi degli Yankee erano stati chiari:
“La Germania non sarà occupata alla fine della liberazione, ma come un popolo nemico sconfitto.”
“Ci hanno distrutto, umiliato, invaso e alla fine ci hanno pisciato addosso”, le disse suo fratello Allen quando andò a trovarlo dopo esser stato catturato. “Noi, la grande armata nazista costretta a piegarsi davanti a questi cani americani. Quando ci siamo arresi volevamo una morte rapida. <<Datecela brutti stronzi. Uccideteci da uomini.>> E invece no. Sorridevano e ci offrivano Rum e Lucky Strike… Mein Gott.”
L’orgoglio ferito nello sguardo di suo fratello la tormentava ogni giorno, sembrava potesse quasi rivedere il vuoto abisso che lo divorava dentro come una lama affilata.
Allen da allora non era più stato lo stesso. Si impiccò dopo qualche giorno.

Lei e Rupert furono costretti a sopravvivere, giorno dopo giorno. Sapevano bene che avrebbero vissuto meglio se si fossero spostati nella Berlino Occidentale, ma essere comandati e seguiti dagli Yankee? O dai tommy? O dai francesi, magari? Diamine, ma quale Francia? Era tutta Germania qualche anno fa. La vergogna sarebbe stata troppa.
Dopo la divisione dei territori avevano iniziato a nascondersi, persero tutti i loro averi e comprarono con ciò che restava due Persilschein. Adesso avevano dei passati totalmente differenti, non erano più in alcun modo legati alle forze sostenitrici del nazismo. Storia nuova, vita nuova e una grossa pillola amara da mandare giù, ma ce l’avevano fatta.

L’importante ora era sopravvivere. Sarebbe andata meglio, lo sapevano entrambi, la Germania si era ripresa da molto peggio. Dovevano solo tenere duro qualche mese, o qualche anno magari.
Non si sarebbero piegati. Per nulla al mondo.

Prese la borsa e si recò verso una bottega lì vicino. Camminava velocemente in modo nervoso stringendosi le braccia attorno ai fianchi nel debole tentativo di proteggersi dal gelo.
Sapeva già quel che avrebbe dovuto fare e l’idea non le piaceva affatto.
Si specchiò in un vetrina rotta ad un angolo fermandosi per un istante. Il volto che rispondeva al suo sguardo era scarno, debole, magro. Al posto dei setosi e morbidi capelli biondi che in passato spesso copriva elegantemente con un cappellino in velluto verde ora c’era una pallida treccia che le scendeva sulla spalla. “Sembrano paglia” pensò.

Camminò ancora finché non raggiunse l’emporio alimentare. Entrò facendo suonare la campanella posta sopra la porta e salutò l’uomo dietro al bancone con un sorriso. Per tutta risposta lui la  squadrò dall’alto in basso digrignando i denti.
Era basso e calvo con naso grosso schiacciato e uno sottile sguardo indagatore. Le maniche del maglione in lana erano arrotolate fin sopra i gomiti mostrando due avambracci muscolosi e pelosi.
“Cosa le serve?”
“Due chiodi, per favore.”
L’uomo fece un grugnito e la guardò ancora mentre si grattava la barba. Dopo un istante si girò e scomparve nel retrobottega.
“Adesso” si disse. Aprì la borsa e infilò dentro due patate prese dal cestino di vimini lì di fronte. Un pugno di legumi e un pomodoro. Si recò velocemente nel centro della stanza fingendosi interessata al contenuto di alcuni barattoli di vetro su degli scaffali.
L’uomo tornò quasi immediatamente poggiando i chiodi sul bancone.
La squadrò ancora alzando il sopracciglio: “Mi mostri il contenuto della borsa”.
Nella sua voce non c’era alcuna sfumatura di gentilezza. Non era una domanda. Era un ordine.
“C-cosa? Perché mai dovrei?”
“Perché dovrebbe? Glielo dico io chiaro e tondo. Ogni settimana entra in questo posto, mi chiede qualcosa di insignificante e quando ritorno mi ritrovo con delle…perdite. La settimana scorsa erano funghi e un cavolo se non ricordo male. E due settimane fa… Vediamo… Ah già, della carne sotto sale.” La sua voce sempre più aggressiva. L’uomo fece il giro del bancone e si avvicinò a lei a piccoli passi. La donna si era impaurita. Stringeva a se la borsa come se fosse il più prezioso dei tesori, cosa non avrebbe dato per poter essere lontanissima da lì.
“Sa cosa? Ho parlato anche con Hugbrecht, a qualche isolato da qui, e con Lambrecht, della locanda in fondo alla strada. Sembra che non sia il solo a cui scompare merce quando lei è nei paraggi, oppure mi sbaglio?!?”
A quelle parole strappò con forza dal braccio della donna la borsa. Il rumore di cotone che si strappa fu per lei terribile. Le patate rotolarono in fondo al locale, il pomodoro si ruppe sulla scarpa dell’uomo e i legumi caddero rumorosamente per terra sparpagliandosi ovunque. Le lacrime e la disperazione iniziarono ad apparire sul volto della donna con la stessa rapidità con cui la vena sulla tempia sinistra dell’uomo iniziava a gonfiarsi di rabbia.
“Maledetta bastarda. Che il cielo ti fulmini!”
Aprì la porta del locale prendendola per la treccia e la sbatté per strada.
“Ladra! Maledetta ladra!”
Si rivolse alla folla che si avvicinò incuriosita: “Guardatela tutti e non fatela più entrare né in casa né nei vostri negozi! Vedrai cosa ti farò, cagna. Tutti lo sapranno. Nessuno ti venderà più nulla, neanche del veleno per permetterti di ucciderti. Spargerò la voce per tutta Berlino. Morirai, cagna, morirai. L’inverno è ancora lungo!”

Rientrò chiudendosi la porta alle spalle sbattendola con forza.
Iniziò a guardarsi in giro disorientata, c’era tanta gente intorno a lei.
Pianse ancora di più di quanto già non stesse facendo e benedisse le lacrime che le riempivano gli occhi e che le impedivano di vedere nei volti che la circondavano il disprezzo e la cattiveria. Pianse, ancora e ancora finché non fu certa di esser ormai sola.

Dopo quelle che parevano essere ore si alzò, distrutta e ferita nell’orgoglio, camminando a zonzo per la strada. “Come farò a dirlo a Rupert?” a quel pensiero altre lacrime solcarono ancora il volto arrossato “Come?”
Continuò a camminare. Non sapeva dove si stesse dirigendo, ma voleva allontanarsi il più possibile dall’emporio di quell’uomo, non voleva rivedere nei suoi occhi il disgusto e il disprezzo.
“Deve esser stato quel che abbiamo fatto.” Disse fra se.
“Quel che ha fatto Rupert, quel che ha fatto Allen” trovò il suo sguardo riflesso in una pozzanghera “quel che ho fatto io.”
Con un lungo sospiro continuò: “Forse me lo merito.”

I piedi continuavano a camminare da soli, senza una meta. Lo sguardo era fisso a terra con la testa infossata nelle spalle per coprirsi dalle violente sferzate gelate. All’improvviso un urto la colpì e cadde. Si coprì istintivamente il viso temendo di esser stata riconosciuta da qualcuno e che volessero picchiarla per quanto accaduto. “Qualche ritorsione” pensò.
Niente di tutto questo. Aveva appena urtato un povero vecchio con un bastone che, come lei, si trovava a terra terrorizzato.
“Non fatemi male” implorava debolmente “sono cieco e non ho con me denaro o cibo, vi prego, abbiate pietà. Sono solo un povero vecchio.”
Si copriva il volto con mani nodose e tremanti mentre le guance si arrossavano e gli occhi iniziarono a lacrimare.
La donna si avvicinò a lui: “Non si preoccupi, stavo facendo…” un nodo le si strinse in gola “compere, si. Legumi. E beh, ecco, l’ho urtata distrattamente.”
Lo aiutò a rimettersi in piedi e gli spolverò via la sporcizia di dosso con leggere pacche sui vestiti.
“Oh grazie, la ringrazio tanto signorina” disse il vecchio “Saprebbe dirmi dove mi trovo? Abito qua vicino e devo raggiungere la taverna di mio fratello all’angolo, è un semplice percorso che faccio tutti i giorni, ma oggi mi sembra di essermi perso. Manca ancora molto?”
“La locanda di suo fratello ha per caso un cinghiale dipinto sulla porta?” si rese conto tardi della stupidaggine appena detta e si morse forte il labbro trattenendo un’imprecazione.
“Oh, non glielo saprei dire signorina, sono cieco dalla nascita” rispose il vecchio con un sorriso “Ma so che si chiama ‘Il cinghiale rosso’ quindi suppongo di si”.
“Oh, beh, in questo caso non è affatto lontano. È proprio qua, a qualche metro da noi. Se vuole la accompagno.”
“Oh non importa, non importa.” La voce carica di gratitudine “La ringrazio, ma devo solo consegnare a mio fratello questa lettera.”
Nel dire queste parole fece sparire una mano all’interno della giacca logora e tirò fuori una busta sigillata con cera rossa. Facendo quel movimento ne cadde per terra una identica. La ragazza gliela raccolse subito e gliela porse.
“Ce ne sono due di lettere. Ecco a lei, questa le era caduta.”
L’uomo sembrò a disagio in un primo momento, ma poi fece un sorriso compiaciuto.
“Due? Oh, non me ne ero accorto… Bene, vuol dire che questa volta è andata bene.”
“Se posso permettermi la domanda, che cosa?”
“Oh ma certo. Sono periodi molto duri, signorina, ma fortunatamente io e mio fratello abbiamo un cugino fuori città che riesce a cacciare ancora qualche gatto e qualche cinghiale. Ogni settimana mi consegna delle lettere lasciandole scivolare sotto la porta. Dentro vi sono i dettagli per la consegna: ora e luogo per poter ritirare la carne senza che nessuno sospetti nulla.”
Carne. Al suono di quella parola le venne l’acquolina in bocca. Da quanto lei e Rupert non cenavano con un po’ di carne?
Il vecchio continuò: “Ahimè se i russi dovessero venire a saperlo si infurierebbero e non poco. Penserebbero che riceviamo aiuto dagli americani e le cose, mia dolce signorina glielo assicuro, finirebbero male per tutti. Per questo consegnano le lettere a me e sono io a fare l’intermediario dei messaggi. Solo dopo mio fratello si può recare in silenzio a ritirar la merce, non si è mai troppo prudenti di questi tempi e nessuno sospetta mai nulla, sia lodato il cielo!”
“E come mai due buste?”
“Quando consegnano due buste significa che la consegna può essere immediata. Dovrò solo dare a mio fratello la busta con in segno rosso e lui si recherà immediatamente lì.”
La donna si avvicinò all’uomo e gli prese le mani con le sue: “La prego, la prego Herr, mi permetta di avere un po’ di quella carne. La scongiuro. Io e mio marito sono mesi che non ne mangiamo e ogni giorno che passa le scorte alimentari diminuiscono.
Per sdebitarmi potrei… Certo! Potrei fare io da tramite, è un lavoro pericoloso, no? Se i sovietici trovassero suo fratello passereste chissà che cosa, io invece…” un nodo le strinse la gola “non ho più nulla da perdere.
E poi nessuno sospetterebbe mai di me. In questo modo suo fratello potrebbe rimanere con la locanda aperta tutto il giorno senza doverla chiudere per ritirare la merce. I guadagni di oggi aumenterebbero e avreste comunque la carne entro sera. Oggi come in futuro.” Provò ad essere più convincente e conciliante che poté: “La prego.”
In vecchio aggrottò le sopracciglia e tamburellò pensieroso il bastone contro il terreno soppesando la decisione. La donna poté scorgere i pensieri affacciarsi sul volto dell’uomo. Le sue rughe cambiavano forma man mano che ponderava rischi e vantaggi di quella offerta. Ora scuoteva la testa ora annuiva debolmente. Le labbra sottili si muovevano lievemente. Dopo qualche istante tirò un lungo sospiro e abbassò le spalle rassegnato.
“Prenda la busta con il segno rosso e non la apra per nessun motivo.” La voce era cambiata. Divenne sottile e tagliente come il vento di quel giorno. “Dovrà consegnarla a mio cugino come prova che viene per conto di mio fratello. Questo è l’indirizzo” le porse un pezzettino di carta stropicciata che teneva in tasca “è l’uscita posteriore di un vecchio locale. Non si faccia vedere da nessuno. Nessuno.”
La donna gli prese le mani callose fra le sue e le scosse forte. “Grazie, la ringrazio tantissimo. Tornerò qua nel minor tempo possibile. Le assicuro che nessuno mi vedrà.”
Il vecchio staccò le mani dalle sue e puntò un dito tremante e nodoso come un viticcio contro di lei: “Non apra la busta. Mai.”
“Lo farò. Lo prometto.”
“Bene.”
Fu così che si separarono, il vecchio battendo rumorosamente il bastone per terra trovò i gradini della locanda, cercò a tentoni la maniglia e aprì la porta. Stava per entrare quando si girò guardando indistintamente verso il cielo e gridò: “Si sbrighi!”
Lei era rimasta a guardarlo fino a quel momento, come incantata, ma le sue parole la risvegliarono. Si scosse, si strinse ancora nel cappotto e iniziò a correre: aveva avuto una chance. Non poteva sprecarla.

Si avviò lungo la strada, voltò l’angolo e si riparò dietro un muro nascondendosi come se fosse un’assassina.
Il biglietto ancora stretto in mano. Controllò l’indirizzo: bene, lo conosceva. Era a poco più di dieci isolati da lì. Iniziò a correre, doveva essere veloce.
“Se la consegna va bene me la faranno fare altre volte. Io e Rupert potremmo avere una possibilità, magari addirittura un lavoro nella locanda! Potremo… Potremo mangiare carne ogni mese! Anzi, ogni settimana!” La sua mente viaggiava veloce. “Dopotutto c’è sempre speranza. Sempre.”
Continuò a correre. Il cielo plumbeo si fece più scuro e tetro con il passare dei minuti e nuvole nere si accumulavano su Berlino inghiottendo voracemente il sole ormai calante.
I mercanti cominciavano a chiudere bottega e i pub iniziavano a riempirsi di voci e di boccali di birra. Dopo un po’ la debolezza fece sentire la sua morsa e il fianco iniziò a farle male per lo sforzo della corsa, decise di camminare. Passi veloci l’uno davanti all’altro finché non arrivò a due isolati dal locale segnato dall’indirizzo. La pioggia iniziò a cadere per le strade.
“Non posso sbagliare, non devo farmi notare”.
Iniziò a camminare più lentamente, noncurante della pioggia fredda che le bagnava i capelli e che le inzuppava lentamente i vestiti. Un brivido gelido la attraversò per tutto il corpo come una forte scossa elettrica e per un momento ripensò alle parole del vecchio.
“Non apra la busta. Mai.”
“Che ci sarà di così importante poi?”
Distolse il pensiero da sé e proseguì. Le strade erano deserte, ma non voleva rischiare di far vedere ad occhi indiscreti una donna che correva velocemente per ritirare un grosso pacco. No, no. “Nessun margine d’errore. Sarò calma, pioggia o non pioggia. Prenderò tutto il tempo necessario per fare quel che va fatto.”
I suoi passi si fecero più decisi.
Eccola. Era una porticina di ferro grigio totalmente anonima e parzialmente divorata dalla ruggine. Si riparò sotto una tettoia cercando di guardare meglio. Dall’esterno non aveva maniglie: non c’era modo di entrare se non farsi aprire dall’interno. Avrebbe bussato. Quante volte? Una, due? Forse c’era un modo particolare di bussare che il vecchio le aveva dimenticato di dirle? E se fosse tutto un scherzo? Carne? Di questi tempi?
I dubbi si insinuarono numerosi nella sua mente, ma un doloroso crampo allo stomaco la riportò alla realtà.
“Non ho scelta.”
Prese ancora il biglietto e ricontrollò che l’indirizzo fosse giusto una, due, dieci volte. Alla fine lo mise in tasca e si assicurò che la lettera fosse ben intatta nella manica della giacca. Lo era.
C’era tutto, era tutto pronto. Ma allora perché non riusciva a muoversi?
La pioggia continuò a battere sempre più forte e il vento sferzava violentemente fra le nuvole cambiandone la forma continuamente in orribili figure senza luce.
Un altro brivido la colse, non per il freddo, ma per un terribile presentimento. Ricordò il volto del vecchio, così gentile nella sua disponibilità, ma così severo nei suoi ordini. Il ricordo del suo dito ossuto e delle labbra sottili come foglie secche le facevano paura. Sentì la lettera nella manica. Avrebbe dovuto aprirla?
Il vecchio le aveva detto che in ogni busta c’era l’indirizzo e l’orario per lo scambio, come faceva dunque a sapere quale fosse subito l’indirizzo giusto, porgendole quel biglietto?
“Si tratterà di una procedura standard per casi eccezionali come questi” pensò. “Magari non capita frequentemente che si debba fare un ritiro della merce in giornata”. Ma allora cosa conteneva la busta? La sentì pesare all’interno della manica come se fosse di piombo.
La estrasse debolmente e la guardò. La cera rossa scintillante, la busta bianca e la carta piegata al suo interno. Non sembrava ci fosse nulla di sospetto. Eppure qualcosa in quella storia non quadrava.
Cominciò a mordersi il labbro inferiore e inserì un indice sotto un lembo della busta. Lo fece scorrere lentamente fino a sfiorare la cera del sigillo.
Un tuono esplose nel cielo, ritirò velocemente la mano e rimise subito la busta nella manica.
“Che diavolo sto facendo?”
Iniziò a rimproverarsi severamente. “ Per una volta che ho una speranza in più, per una volta che qualcuno decide di aiutarmi, ecco che mando quasi tutto al diavolo per la mia curiosità. Stupida, stupida, stupida. Piccola Pandora curiosa tieni le mani a posto e fai quello che ti è stato detto.”
Ma un’altra parte di se la incalzava: “E perché tutti questi segreti? La carne in questo periodo? Un cieco che porta lettere a suo fratello? E perché mai dire ad una donna incontrata per strada un segreto così grande?”
“Basta. Si sarà fidato di me, era anziano d’altronde. E poi i sovietici, la fame, il muro, il pericolo. Ecco il perché di tutti i segreti.” Si ripeté quelle parole fino a convincersi.
“Sovietici, muro, fame, pericolo, sovietici, muro, fame, pericolo, sovietici, muro, fame, pericolo, sovietici, muro, fame, pericolo, sovietici, muro, fame, muro, pericolo, fame, sovietici, fame, pericolo, fame, muro, fame, sovietici, fame, muro, fame, pericolo, fame, fame, fame, fame, fame… Rupert.
Devo provare.”
Era pronta.
Si strinse ancora nel cappotto e si incamminò velocemente sotto la pioggia fino a raggiungere il portoncino di ferro.
Bussò due volte. Il rumore rimbombò all’interno. Attese.
Nessuna risposta.
Attese ancora.
Finalmente una voce rauca rispose dall’interno: “Chi è?”
“Mi manda il proprietario della locanda ‘Il cinghiale rosso’. Dovrebbe darmi una cosa.”
“Tu che cos’hai per me?”
“Una lettera.”
Ci fu qualche istante di silenzio. Il rumore di serrature che si aprivano.
“Bene, puoi entrare.”

Spinse la porta ed entrò. La accolse un uomo molto alto, dal torace ampio e con braccia possenti. Sembrava un gigante. Aveva una camicia rozza con sopra un grembiule da lavoro. “Sei da sola?”
“Si… Certo, non mi ha seguita nessuno. Sono stata attenta.”
“Bene” e un lungo sorriso accogliente gli apparve sul volto mostrando denti bianchissimi e sollevando gli zigomi così tanto da far socchiudere gli occhi. “È andato tutto bene quindi!” ripeté ancora entusiasta dandole una forte pacca sulla spalla.
“Aspettami pure qua accanto al camino, torno subito”

Si rivolse verso il camino. Una piccola foto incorniciata era poggiata sul bordo superiore. La guardò distrattamente mentre si riscaldava protendendo le mani verso le fiamme guizzanti. Gli occhi pian piano iniziarono ad abituarsi al buio ed iniziò a guardarsi intorno con curiosità.
Dietro di lei c’era un banco da lavoro ben pulito e sgombro da ogni arnese, sulla sua sinistra invece c’era una  fila di sedie disposte in fila. Oltre di loro notò un grande vetro.
“Una vetrina.” Disse. Strinse gli occhi per guardare meglio. Era dipinta una scritta a grandi caratteri. La scritta di un negozio, adatta ad attirare l’attenzione dei passanti all’esterno. Fece più attenzione alle parole e lesse al contrario “Macelleria”.
“Certo, la carne in eccesso la rivendono qua. Ne avranno davvero in abbondanza.”
Guardò ancora la fotografia e prese la cornice in mano. Erano tre uomini, sorridevano in posa davanti al fotografo . Quello al centro era sicuramente l’uomo che l’aveva accolta nel locale, Lo riconosceva dalle spalle larghe e dal sorriso smagliante. Quello a sinistra non l’aveva mai visto: capelli castano chiaro e folti baffi con piccoli riccioli alle estremità. Quello a destra invece era il vecchio incontrato poco prima, non c’erano dubbi.
Era poco più giovane dell’ uomo che aveva visto oggi pomeriggio, ma lo sguardo, i capelli, le labbra. Salvo qualche ruga in meno erano identici.
Osservò meglio la fotografia. Erano in posa davanti alla locanda. Il cinghiale inciso e dipinto sulla porta, i gradini, il marciapiede e anche la strada: era tutto identico al posto in cui si trovava fino a qualche ora prima. “La foto di inaugurazione del locale” sussurrò con un sorriso.
Ad un certo punto fermò il suo sguardo sull’uomo a destra, studiandolo attentamente.
“Un momento” disse a bassa voce. Guardò da più vicino. Sorrideva al fotografo. Lo vedeva, non c’erano dubbi.
Le parole ritornarono nella sua mente come un dolorosissimo flash: “Sono cieco dalla nascita.”
Immediatamente le venne un pensiero: “Quest’uomo la busta non l’ha più presa. Non l’ha voluta…”
La sfilò velocemente dalla manica e si inginocchiò davanti al camino. La aprì rompendo il sigillo, dispiegò il foglio contenuto al suo interno e lesse ciò che c’era scritto alla luce delle fiamme.
Le parole, letali come baionette affilate, le si conficcarono le cuore paralizzandola.

Questo è l’ultimo che ti mando questa settimana, fattelo bastare. A noi basta un quarto per la locanda.”

Non era possibile. “Cinghiale? Carne in questo periodo? Oh no.”
Lo capì presto, ma era troppo tardi. Un istante e un sibilo dopo un’accetta le si conficcò nel cranio facendole esplodere un occhio fuori dall’orbita macchiando con uno spruzzo scarlatto la fotografia. Un secondo colpo arrivò preciso, netto, alla base del collo troncandolo di netto. La testa rotolò fino alla porta di ferro lasciandosi un piccolo rivolo rosso al suo passaggio, la bocca ancora contratta in una smorfia di terrore.

L’uomo si ergeva davanti a lei, il grembiule macchiato di sangue.

Afferrò il corpo e lo spogliò lasciandolo nudo sul tavolo da lavoro.
Era tutto il giorno che affilava i suoi strumenti sulla mola, quasi temeva che non gli avrebbero mandato nessuno. Guardò il magro corpo della donna, lo squadrò da capo a piedi soppesandolo: quanto avrebbe potuto ricavarne una volta rimosse ossa e le interiora?
Sospirò: “Saranno venti, forse trenta kili. Vediamo.”

Prese un lungo coltello a punta fina e lo infilò nell’incavo del ginocchio. La rotula. Adorava iniziare a spellare dalla rotula. Fece un largo sorriso e si mise a lavoro. Lo fece salire elegantemente percorrendo di lato tutto il quadricipite. Fece lo stesso con l’altra gamba fino ad unire perfettamente le due incisioni. Avrebbe fatto la stessa cosa sul lato posteriore, poi gli sarebbe bastato tirare via e la pelle sarebbe scivolata come burro.
“Devo fare presto” si disse “devo aprire fra sei ore”.

 

Racconto precedentemente pubblicato su Cheesusfried.com QUA

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Rorschach

Studente di ingegneria, lettore di fumetti, bassista occasionale, amministratore e scrittore sconclusionato.
Non credo nelle descrizioni da blogger e quello che leggo su internet, non dovreste farlo neanche voi. Forse. Chissà. Meh. Fanculo.